Blog di Dante Paolo Ferraris

  • Aumenta dimensione caratteri
  • Dimensione caratteri predefinita
  • Diminuisci dimensione caratteri
Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Chiaroscuri nella città eterna (VIII parte)

E-mail Stampa PDF
RomaOrmai sono giunto davanti al palazzo di giustizia, più comunemente chiamato il Palazzaccio, anche a mio parere un orribile palazzo ispirato all'architettura neo barocca realizzato su disegno dell'architetto Calderoni.
Era il 14 marzo 1888, quando alla presenza dei reali fu posta la prima pietra del Palazzo di Giustizia, ma i lavori di costruzione andarono per le lunghe, sia per le polemiche e le critiche che accompagnarono l'edificio sin dai primi anni della sua edificazione, che per i ritrovamenti archeologici venuti alla luce in quest'area paludosa e limacciosa. L'inaugurazione si tenne soltanto 22 anni dopo, il 9 novembre 1910. Il palazzo, nelle volontà dell'amministrazione sabauda, avrebbe dovuto rappresentare il nuovo ordine che rimediava alle passate ingiustizie del governo pontificio.
Il palazzo è rivestito in marmo travertino, ma la sua struttura è in cemento armato. La facciata principale è quella rivolta verso il Tevere ed è caratterizzata da un arco trionfale che ne costituisce il portale di accesso, sormontato dal gruppo scultoreo della "Giustizia", raffigurata seduta al centro di altre simboliche figure che rappresentano la "Legge" e la "Forza". La facciata presenta altre statue colossali raffiguranti "Cicerone", "Papiniano", "De Luca" e" Vico" in piedi ai lati dell'ingresso, mentre seduti vi sono "Licinio Crasso" e "Salvo Giuliano". Anche ai lati dei finestroni sovrastanti l'arco centrale di questo pantheon vi sono due statue di figure alate raffiguranti la "Fama" che ha per attributo emblematico la tromba e la corona. Sul tetto del palazzo è posta una colossale quadriga raffigurante anch'essa la "Fama" che guida il carro. Comprendo benissimo perché i romani, lo abbiano soprannominato "Palazzaccio" sia per il suo aspetto sia per la sua funzione. Ma la mia sosta, davanti a questo edificio, non è tanto per commentarne l'aspetto ma per ricordare che solo un anno dopo l'inizio lavori, le sabbie limacciose del fiume restituirono alla luce due sarcofaghi, di cui uno conteneva il corpo ed il prezioso corredo intatto della fanciulla romana "Crepereia Tryphaena". Era il 10 maggio del 1889 quando scavando sulla riva destra del Tevere, a circa otto metri di profondità, vennero rinvenuti due sarcofaghi, ricavati da un unico blocco di marmo. La forma era molto semplice, rettangolare. Il primo aveva le pareti completamente lisce con scolpito il nome del defunto, un certo Crepereius Euhodos, forse un liberto di origine greca, certamente un uomo con discrete possibilità economiche, il secondo era decorato con strigilature ai lati e una scena di compianto funebre appena abbozzata: una donna morta è deposta sul letto accanto al quale è seduta una donna velata. Alle spalle del letto, un uomo avvolto da un mantello. Questo sarcofago conteneva le spoglie della figlia come risulta inciso sul coperchio che riporta il nome: Crepereia Tryphaena. Quando fu aperto questo sarcofago venne rinvenuto lo scheletro di una fanciulla, i suoi gioielli, una corona di mirto e una bambola. Lo scheletro della giovane presentava una folta capigliatura sul capo. Questa sensazionale scoperta commosse tutta Roma e le cronache dell'epoca ne diedero grande risalto. Nel Bullettino Archeologico del 1889, Lanciani scrive così: "Tolto il coperchio e lanciato lo sguardo sul cadavere attraverso il cristallo dell'acqua limpida e fresca, fummo stranamente sorpresi dall'aspetto del teschio, che ne appariva coperto da folta e lunga capigliatura ondeggiante sull'acqua. [...] Il fenomeno della capigliatura è facilmente spiegato. Con l'acqua di filtramento erano penetrati nel cavo del sarcofago bulbi di una certa tal pianta acquatica che produce filamenti di color d'ebano, lunghissimi".
Crepereia era una ragazzina di forse tredici/quindici anni, l'epigrafe sul suo sarcofago ci fornisce solo il nome della fanciulla, ma nulla sulla vita della giovinetta e sulle cause della sua morte. Ma a parlare di lei ci pensano i suoi anelli e, soprattutto, la corona di mirto con il fermaglio centrale in argento ritrovati che stanno a significare che Crepereia stava per sposarsi.
Infatti la corona di mirto che le cingeva la fronte, simboleggiava la vittoria della sua verginità sulle tentazioni passionali.
Crepereia portava con se nell'Ade i suoi gioielli: un paio di orecchini in oro e perle, una collana in maglie circolari a cui sono appesi con fili d'oro trentasei pendagli di smeraldo, un fermaglio d'oro, di forma ovoidale nel quale è incastonata un'ametista incisa raffigurante un grifo alato che insegue una cerva, un semplice anello in oro e poi gli altri due anelli, che confermano la prossimità delle nozze della fanciulla. Il primo è un anello in oro con il castone in diaspro rosso, di forma ovoidale e piatto, sul quale sono incise due mani destre che stringono un mazzo di spighe, riferimento alla confarreatio, cioè l'offerta della torta di farro che gli sposi portavano al Tempio di Giove Capitolino. Questo sicuramente avrebbe dovuto essere la fede nuziale, l'anulus pronobus che lo sposo avrebbe dovuto infilare, come scriveva Giovenale, "nel dito vicino al mignolo della mano sinistra", cioè all'anulare della sposa. L'Anulare era il dito scelto perché dall'anulare partiva un nervo che lo congiungeva al cuore, come vogliono le antiche credenze riportate dal grammatico Aulo Gallio. Il secondo anello era un semplice cerchietto in oro, forse portato su una delle falangi superiori e sormontato da una targhetta sulle quali era chiaro il nome inciso: Filetus, sicuramente lo sposo. Tutti hanno ritenuto questo secondo anello un pegno di fidanzamento che Filetus donò al suo amore Crepereia. È straordinario che nella sepoltura di Crepereia fosse presente una bambola dagli arti snodabili, posta proprio accanto al corpo della fanciulla. La comunità romana ha voluto vedere nella presenza della bambola il simbolo del grande amore provato per la defunta da tutta la sua famiglia.
La tradizione romana voleva che alla vigilia delle nozze, le fanciulle si recassero all'altare di Venere per donare la loro amata bambola, come segno della fine dell'infanzia. Al momento del ritrovamento, sempre Lanciani scrive che "il cranio era leggermente rivolto verso la spalla sinistra, e verso la gentile figurina di bambola intagliata in legno di quercia." La bambola però era in avorio e non in legno, forse perché l'avorio fu reso bruno dalla lunga permanenza accanto al corpo in decomposizione di Crepereia. Questo significava che la famiglia era ricca per permettersi un cosi prezioso manufatto. Il ritrovamento ispirò al poeta Giovanni Pascoli un poemetto in lingua latina dove egli rievoca la cerimonia funebre per la giovinetta morta poco prima del matrimonio e rivive l'amore del promesso sposo Fileto. In un passo della poesia si legge: "...Venerique pupa nota negata est" "… riconosco la bambola promessa invano a Venere".
Poco distante, oltrepassato il Palazzaccio, poco dopo l'angolo di via Ulpiano, dove per qualche tempo vi lavorai, si trova la chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, un gioiellino di marmo bianco risaltante sui cupi palazzi vicini. L'edificio del 1897, realizzato in fiammeggiante gotico, può essere definito un modello del duomo di Milano. Nel 1897 un incendio distrusse una cappella, oggi non più esistente, dedicata alla Madonna del Rosario. Una volta domato l'incendio, rimase impresso su una parete dell'altare un volto nerofumo, che subito venne identificato come appartenente ad un anima vagante nel purgatorio. Una decina di reliquie, libri, foto, stoffe e altre cose testimoniano, secondo il padre marsigliese Vittore Jouet, che fu tra l'altro colui che volle edificare questa chiesa, i presunti contatti fra le anime del purgatorio e i vivi, segni lasciati dalle anime dei defunti per chiedere indulgenze e preghiere. Tra questi cimeli vi sono le impronte di tre dita lasciate nel 1871 sul libro di devozione di Maria Zaganti, dalla defunta Palmira Rastelli che chiedeva la celebrazione di sante messe e molte altre impronte lasciate anche a fuoco su altri libri, stoffe e fotografie.
Attraverso il fiume Tevere sull'ottocentesco ponte Cavour e mi ritrovo quasi subito davanti all'Ara Pacis Augustae, ovvero l'Altare della Pace di Augusto, realizzata dopo le vittoriose campagne di Gallia e di Spagna per celebrare la pacificazione nell'area mediterranea. Il monumento fu solennemente inaugurato il 30 gennaio del 9 a.C. L'Ara Pacis è costituita da un grande recinto rettangolare in marmo, realizzato su un podio e con accesso attraverso due porte poste nei lati più lunghi, alle quali si accede tramite una scala marmorea. Al suo interno è situato l'altare posto su un rilevato che si raggiunge con ulteriori tre gradini, mentre altri cinque gradini permettevano al sacerdote di raggiungere la mensa, ossia il piano dell'altare sul quale si celebravano i sacrifici.
Il recinto, sia nella parte interna che in quella esterna è ampiamente decorato con bassorilievi, suddivisi internamente con due fasce di decorazioni che vi corrono per l'intero perimetro. La parete interna presenta motivi floreali e listelli verticali a rilievo, quasi ad imitare uno steccato, mentre la parte superiore presenta scene mitologiche ed allegoriche nei lati lunghi, rappresentazioni di carattere storico nei lati corti: le rappresentazioni sono riferite al "Lupercale", cioè la grotta dove la lupa del mito romano avrebbe allattato i gemelli Romolo e Remo, in un altra compare Enea nell'atto di sacrificare la scrofa dai trenta porcellini ai Penati. Un altro quadro dovrebbe rappresentare la Pace, altri dicono la Terra, ma qualunque cosa esso sia raffigura una donna fiorente con due bambini, un bue, una pecora, piante palustri, fiori e altre due figure femminili seminude, una seduta sopra un mostro marino, l'altra sopra un cigno e dovrebbero simboleggiare rispettivamente l'Acqua e l'Aria. Nei lati corti invece bisogna guardare con attenzione per comprendere chi siano i personaggi rappresentati nelle due schiere, forse durante una processione, oppure nel corso della cerimonia di accoglienza tributata ad Augusto per suo ritorno dalle campagne di Gallia e Spagna. Ma l'immagine che da sempre attira la mia ammirazione è la "fotografia" della famiglia di Augusto, ossia il fregio posto sul lato rivolto verso il Mausoleo di Augusto. Nel fregio sono riconoscibili, anche perché posti in ordine gerarchico, lo stesso Augusto, davanti a tutti con il capo velato seguito da notabili togati e dai quattro Flamini con l'elmo amicato (si tratta di addetti al culto imperiale o delle divinità) e da un "sacenator" con la scure ( addetto al sacrificio degli animali con l'ascia a doppio taglio). Seguono tutti i familiari, da Agrippa con il figlio Caio Cesare a Lucio Domizio Enobarbo. Dall'altro lato, quello rivolto verso il Tevere, prosegue la processione ma i personaggi togati, i sacerdoti ed un gruppo di donne e bambini sono ormai quasi tutti privi di teste. Nella parte interna, al livello superiore sono rappresentati ricchi festoni di foglie e frutta appesi a bucrani ( scheletri di teste di bue) e patere (coppe sacrificali). Ovviamente anche l'altare reca decorazioni scolpite che ricordano il sacrificio che il 30 gennaio di ogni anno, nella ricorrenza della "consecratio", si svolgeva con l'immolazione del maiale, della pecora e del toro. Questa cerimonia era nota come "suovertaurilia" (il sacrificio).



Fine VIII parte.