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Dietro le quinte di Cuba (I parte)

Martedì 25 Maggio 2010 11:55
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Cuba (04/2010) Come arrivo all’aeroporto Jose Martì, mi adatto subito al ritmo lento lentissimo che ha la popolazione caraibica nel sangue.
Mi attendono all’ingresso dell’aeroporto Maria e Wilmer; cambio qualche soldo nella valuta dei turisti e con un taxi mi faccio accompagnare fuori dall’area dell’aeroporto, ove mi attende con la sua auto Maria e Wilmer che mi segue.
Difficile per un cubano dare un passaggio ad uno straniero senza essere fermato dalla Polizia.
La strada che mi porterà a destinazione è lunga, ormai è notte fonda e mentre percorriamo la Via Blanca, discutendo amabilmente con gli amici, assaporo i profumi dei caraibi.
La casa che mi ospiterà per qualche giorno è sulla via principale, una vecchia casa coloniale, ove Lella, la padrona di casa, ha ricavato qualche stanza per ospitare i turisti o i viandanti locali (casa particular) che vogliono vivere la Matanzas vera e non dei grandi resort.
I ragazzi per ricevermi hanno chiesto un giorno di permesso. La casa è linda, nell’ingresso fanno bella mostra su pregevoli mobili diversi ninnoli, anche belli ma che io definisco “prendi polvere”, che però nelle povere case cubane vogliono dimostrare una ricchezza effimera.
Nel piccolo patio, un albero di aranci o limoni, faccio fatica a distinguerlo per le poche foglie che ha e per la pesante potatura subita, dovrebbe fare ombra a una piccola fontana ove tre tartarughe giocano tranquillamente.
I colori della casa sono tutti pastello, quei colori caraibici che infondono serenità, soffitti bianchi, pareti celesti, gialline o verde tenuo che fanno da sfondo naturale a quelle grandi bianche sedie a dondolo, sparse ovunque, retaggi coloniali ma tanto belle e comode.
La stanza ha un piccolo balcone solario… E’ inoltre grande e pulita come il bagno, c’è la Tv, il frigorifero e l’aria condizionata, grande lusso.
Il mattino a colazione conosco Lella, che ciondolando sulla sua sedia a dondolo, mi porge il benvenuto e mette l’intera casa a disposizione. E’ una Signora sui settant’anni, alta, di corporatura robusta, ma non grassa, sembra una locale Moira Orfei, con i sui capelli raccolti in un asciugamano bianco a mò di turbante.
Bianco è tutto il suo abbigliamento, la sua carnagione mulatta la rende una figura da cartolina.
La colazione (desayuno) è a base di frutta tropicale naranja, plàtano, guayaba, piña, zapote, ecc, un caffe e una tostada con mantequilla con abbondante succo di piña. Saldo il conto dell’affitto della casa in anticipo e vado alla scoperta della città.
Come esco dalla porta mi sembra di entrare in un set di un film ambientato negli anni cinquanta, tanta è la gente che si accalca sulla calle del medio (nome della strada) e tutti con abbigliamento coloratissimo, tanto quanto le sgangherate ma affascinanti auto. Percorro la strada anch’io con passo lento e pensare che stavo per non imbarcarmi all’aeroporto di Malpensa: un incidente mi aveva tenuto bloccato in autostrada per oltre un ora, dovendo discutere e impietosire il personale addetto al check-in. (fino allo stremo delle forze).
Vado a vedere i negozi di elettrodomestici, negozi senza affascinanti vetrine, nemmeno luminose, poche cose, nascoste da vetri sporchi e con una piccola insegna che spiega cosa vende.
Sono prodotti provenienti da mercati asiatici, poca merce europea e molta merce cubana, ove si nota il tentativo di copiare malamente il designar europeo.
Ovunque code ordinate e vigilantes in ogni negozio. La città è pulita, ovunque spazzini con scope consunte e bidoni per l’immondizia su tricicli.
I profumi sono quelli del mare. All’ora dell’uscita delle scuole, mugoli di bambini e ragazzi con le loro divise colorate invadono in ogni dove, strade e marciapiedi. Pranzo (comida) con Wilmer, un pasto a base di zuppa di fagioli neri potaje e carne di maiale (cerdo), e lo accompagno a prendere la guagua per andare al lavoro.
Matanzas da l’idea di una città trascurata, un gigante addormentato con belle chiese, ponti, case coloniali scrostate, anticamente definita l’Atene di Cuba per il grande ruolo letterario, teatrale e musicale che un tempo ricopriva. La città non è molto considerata dai turisti, sono rari quelli che si incontrano per la strada, le strade sono molto sconnesse, i negozi sono anonimi e talvolta alcuni angoli hanno un’atmosfera deprimente, ma la vera Cuba è qui, con gli uomini seduti fuori dalla porta a giocare a domino con gli amici su un improvvisato tavolo, scoprendo i veri ritmi della rumba che escono dalle finestre delle case, o basta fermarsi nel parque Libertad a guardare passare i giovani e i meno giovani camminare con il passo della salsa nel sangue.
Faccio due passi per le vie assolate, il sole è caldo ma l’aria non è afosa, percorro sui marciapiedi le strade della cittadina, agli angoli delle vie centrali i venditori ambulanti vendono le loro poche cose, venditori di fiori, gelatai e venditori di frittelle, un paradiso per i bambini che gridano e giocano come in tutto il mondo.
Mentre mi riavvio verso casa, devo riposare e riconciliarmi con il fuso orario, incontro un ragazzo mulatto, tutto vestito di bianco, mi fermo un attimo a guardarlo. Scarpe, pantaloni lunghi, camicia e cappello bianchi, solo un braccialetto colorato al polso sinistro, è il mio primo incontro con la santeria.
La magia dei carabi rende quest’isola misteriosa e fortemente superstiziosa. Riti e credenze la rendono un miscuglio magico, animico e sensuale. La Santeria è la vera religione di Cuba, ricca di retaggi africani e spagnoli, confonde in un mix al di fuori delle nostre concezioni le aspettative di molti, credenze molto vicine anche alle nostre.
La popolazione di Cuba è meticcia non solo dal colore della pelle ma anche dal punto di vista culturale e il campo religioso ne è la dimostrazione. Anche di questo si è arricchita la Santeria che in terra cubana ha messo radici e a Matanzas è particolarmente vissuta.
Alto, giovane, moro con occhi profondi e neri messi in primo piano dal bianco del suo vestito che quasi abbaglia alla luce del sole, capisco solo che è un seguace di Changò dal colore del braccialetto bianco e rosso che distingue l’Orisha protettore. Questo giovane ha scelto il Dio del fuoco, del fulmine, della guerra e dei tuoni, ma anche della bellezza virile e della danza e della musica. E’ l’Orisha con più virtù ma rappresenta anche le imperfezioni umane. Changò è un lavoratore, un indovino e guaritore, coraggioso ma è anche un bugiardo, rissoso, donnaiolo. Buon padre e buon amico non ammette codardia e atti effeminati nei suoi figli. Quante cose, vuole dirmi questo ragazzo vestito di bianco con quel braccialetto. Changò si sincretizza con la religione cattolica con Santa Barbara ed entrambi si festeggiano il 4 dicembre.
Al risveglio accendo la televisione, non ho voglia di uscire, attendo l’ora di cena, sul desco trovo una zuppa di ceci e fagioli neri, densa e saporita, del pesce (pescado) cucinato con cipolla e ananas.

La casa di Fernando è piccola, povere cose buttate qua e là, in quell’ordine sparso di un uomo che vive da solo, alle pareti delle sue foto in bianco e nero, di quando in giovane età faceva il cantante all’Havana, mi racconta che in quegli anni viveva al Vedado, uno dei quartieri più belli della capitale, lo dice con quel tono di rimpianto per una età che non torna più e per il soldo facile dovuto alla sua professione.
Una strana ma cara persona, 73 anni suonati, ma vissuti intensamente, cantante poi infermiere e infine taxista. Vive in simbiosi con la televisione, al piano terreno in uno di quei palazzi, tutti uguali a tre-quattro piani in un quartiere periferico di Matanzas, per arrivare a casa sua ho preso un carretto trainato da cavalli (Coches de caballo) che funge da autobus privato e poi fatto un pezzo breve a piedi in una assolata e calda giornata, ove anche gli uccelli cercano riparo tra le fronde delle palme, delle carrube e dei fioriti bouganville.
Dice di non interessarsi di politica ma sa tutto di Berlusconi. Un fratello abita in Canada a Toronto, dove ha fatto il suo unico viaggio fuori Cuba, lo racconta come un viaggio avventuroso e bellissimo.
Decidiamo con Wilmer di sfamarci e mangiare da lui, il frigo “piange”, non credo sia stato mai pieno. Vado a fare due passi per gli acquisti. Trovo una bottega vicino a casa; bottega è un termine un po’ fantasioso, insomma mi affaccio al banco, pare più un box della lotteria parrocchiale che un negozio di alimentari. Cerco di capire tra le poche cose esposte in fila come i soldatini se c’è qualcosa da comprare.
E’ uno di quei negozi in cui un tempo si acquistava con la tessera annonaria, riconosco gli spaghetti, unica pasta ammessa nel negozio, chiedo del burro (mantequilla), salsa di pomodoro, trovo della salciccia in scatola, insomma il pasto è salvo.
In frigo ci sono delle uova, tenterei di fare due spaghetti con salciccia e uova, una specie di carbonara caraibica.
La cucina è veramente misera, non solo di dimensioni. Fernando tenta di tenere pulito le poche cose che ha, ma sono talmente vetuste e usate. Certo che sono molto lontane le immagini delle nostre massaie televisive nelle gare tra i fornelli.
La pentola in cui metto l’acqua a bollire pare mi guardi e mi dica, “ancora una volta, NO basta”, ma poi porta in ebollizione l’acqua e con aria trionfante la “sbuffa” fuori.
Per il soffritto trovo una padella il cui ultimo proprietario era un cow boy, la padella pare abbia conosciuto solo pietanze a base di fagioli e cipolle, ma accoglie con entusiasmo la salciccia.
Fernando imbandisce il tavolo con il servizio migliore (forse una volta), non c’è un piatto, un bicchiere, un cucchiaio o una posata uguale.
Mangia con avidità la pasta, come se non l’avesse mai mangiata, forse non si ricordava più il sapore della pasta; mi chiede tre volte la ricetta di una carbonara caraibica inventata sul momento.
Definisce questa portata un pasto completo e si rimette sulla sedia a dondolo a guardare la sua telenovela preferita. Nel lasciarmi mi abbraccia e mi dice “Cuba è un paese tranquillo, torna”.
Riprendo la strada da cui sono arrivato; all’andata avevo preso il carretto tirato dalla povera giumenta, al ritorno preferisco farmela a piedi per godermi il sole e il paesaggio.
La strada è costellata di buche, le poche auto e i sidecar che transitano devono fare gli slalom tra questi crateri… mi confondo tra la gente locale che a piedi percorre con me la strada.
Ammiro lo stadio di pelota (baseball) che è sport nazionale. Uno stadio immenso per una città cosi piccola, dalle porte aperte vedo dei giovani che giocano e si allenano.
I campi ai lati della strada sono tutti coltivati, piccoli appezzamenti ordinati e ben tenuti, qua e là un cavallo o una mucca al pascolo.
Entrando in Matanzas percorro un breve tratto vicino al rio San Juan, (fiume) che sbocca in mare proprio a Matanzas. Un corso d’acqua navigabile, ci sono diversi pescatori con le loro piccole barche a motore; alcune ancorate altre in navigazione verso il mare aperto.
I pescatori sulle rive sono seduti su improvvisati sgabelli, a passare una a una le reti, pronti per la prossima pescata.
Cerco di guardare dentro a quei pochi e poveri negozi alla ricerca di un souvenir che non troverò certamente qui...

Fine I parte.