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Dani pivo Karlovacka - viaggio tra i castelli della krajina

Venerdì 24 Dicembre 2010 10:56
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karlovacTornare a Karlovac è come andare nella casa di campagna di famiglia. Gli oltre 650 km di distanza dalla mia abitazione, benché pesanti per le ore di guida, sono ampiamente ripagati dalla serenità dei luoghi, ma soprattutto dalla splendida amicizia che mi lega ai suoi abitanti da molti anni.
Torno per l’annuale festa della birra, la dany karlovacko pivo. Sono anni che ci vengo per passare una serata in compagnia, bere della buona birra e mangiare il succulento maialino allo spiedo.
Quest’anno sono accompagnato da alcuni amici, Stefano, Luca ed Enza, solo Stefano è un veterano della festa della birra.
Varcato il confine sloveno-croato, raggiunta Fiume ci dirigiamo verso Karlovac; è tardo pomeriggio, ci attendono Edita e Branca per le 20.00, dovremmo ancora passare in albergo a posare i bagagli, risciacquarci, cambiarci e prepararci all’abbuffata.
Il viaggio è stato tranquillo, eccezion fatta per un’ora di coda sull’A4 per un incidente tra Venezia e Trieste ed il caos per uno svincolo autostradale mancato in Slovenia; eravamo troppo impegnati a chiacchierare.
Enza ha passato ore in auto a leggere un libro, Stefano indossa un paio di occhiali da "vespa Teresa" gialli e neri e non ha mollato il volante un solo attimo, con Luca si chiacchiera su comuni interessi.
La Contea di Karlovac rientra fra le regioni croate di media grandezza e fra quelle a più bassa densità di popolazione.
E’ situata nella zona di transito della Croazia centrale a ridosso della zona montana, nella parte più stretta del territorio dello Stato.
Da sempre quest’area della nazione croata è definita "Porta di Karlovac”. In questo territorio si stagliano quattro fiumi, straordinariamente belli e di grandi dimensioni, con acque limpide dai colori smeraldo. - Korana, Kupa, Mrežnica e Dobra.
La particolarità di questa posizione di transito montagna/mare, si evidenzia anche nelle caratteristiche climatiche che vanno dal clima moderato continentale, a quello tipico delle aree montane e delle relative vallate.
I castelli ed i borghi che costellano le montagne che ci circondano lungo il tragitto sull’autostrada, rendono questi luoghi ancor più fiabeschi, borghi cinti da una lussureggiante vegetazione, tra gli alberi emerge qua e là un caratteristico campanile barocco o una torre medievale.
Raggiungiamo l’albergo che da sempre ci ospita, il Karlstad, tempo di posare l’auto, i bagagli in stanza, una doccia e cercare un utile comprensione in lingua mandrogno/croata con la bella ragazza che ci accoglie nella hall dell’Hotel e già siamo diretti alla festa della Birra.
Ci attendono fuori dall’albergo Edita e Branca, grandi abbracci e cordiali saluti. Quante storie ho vissuto con loro durante i periodi della guerra.
Superiamo su un ponte di chiatte militari il Korana e varchiamo i confini non disegnati della festa, i percorsi pedonali sono costellati di tende ristorante, improvvisati pub, stand di salumi, dolci.
Ogni tendone ristorante ha il suo complesso musicale, la calca è tanta, non c’è distinzione di giovani o meno giovani, donne o uomini: tutti hanno il boccale in mano e il sorriso sulle labbra mentre da lontano si scorge la ruota illuminata del parco giochi.
Entriamo nel ristorante in cui avevamo prenotato il tavolo, il tempo di sederci e siamo inondati dalla birra che a boccali raggiunge il nostro tavolo: le nostre accompagnatrici, donne morigerate, si accontentano di succo di idromele. Portano subito una splendida carpa (pesce molto frequente nei fiumi croati) affumicata, ordiniamo un fish goulash paprika, portata ricca di pesci di fiume, ivi compreso il famoso pesce siluro, piatto che sei costretto a gustare mangiando molto pane, tra l’altro cotto in forno a legna e servito ancora caldo.
Vorremmo chiudere con una palacinka (specie di crepes ripiena di marmellata o cioccolata), ma la tentazione di un maestoso piattone di carni di maiale alla griglia con crauti e cren, vince su di noi.
La serata che si presentava fresca, ora appare calda e la strada verso l’albergo più corta.
La stanza è accogliente due bei letti grandi per me e Luca, subito alle prese con una finestra che non ha tapparelle o persiane e la luce dalla strada ci giunge fioca tra le spesse tende.
Vediamo domani cosa ci attende.



A spasso per castelli.
La mattina mi alzo presto come mio solito, vado verso il letto di Luca che è rannicchiato tra le lenzuola e coperte, il suo corpo minuto si confonde con le pieghe delle coperte che pare abbiano subito una centrifuga notturna, visto il disordine che regna su quel letto. Lo lascio dormire un po’ di più, d’altra parte a 20 anni si fa fatica ad alzarsi presto.
Siamo per le otto tutti in piedi e ci atteggiamo con la calma tipica dei vacanzieri: voglio fare due passi per il mercato, incontrare Boro e se si riesce andare ai laghi di Plitvice o a Zagabria.
Boro lo incontriamo alla sede della H.R.C., è un uomo ormai attempato, ci riceve con Edita e Branca, c'è anche sua nipote Anita, di appena 19 anni che fa subito amicizia con Luca.
E’ coetanea di Luca, bionda, capelli lunghi, alta e magra, i suoi occhi sono profondissimi, le sue mani sono dolcemente affusolate e dimostra meno anni di quello che dichiara.
Ci sediamo e iniziamo una lunga ed affettuosa chiacchierata in tre lingue diverse, croato, italiano e mandrogno. Ma non è questo un problema, dagli occhi di Boro leggo i suoi sentimenti, tanto che la lingua è solo il suggello che l’anima sprigiona.
Ci siamo conosciuti durante la guerra, tante volte ci siamo salutati con calorose strette di mano, scambiando qualche convenevole mentre si sentivano in lontananza gli spari. Quante volte siamo andati insieme al fronte, quante volte l’ho visto soffocare le lacrime, talvolta di gioia ma più sovente di disperazione.
E’ un uomo grande e grosso, con un faccione tutto tondo, ma più che le rughe dell’età, emergono questi occhi sempre umidi di lacrime; quanta sofferenza raccontano, quanta strada ha fatto a piedi al fronte per scambiare informazioni tra i vari prigionieri e le loro famiglie.
Lui non lo dice ma amici comuni mi hanno raccontato che è stato vilipeso e picchiato più volte durante queste "trasferte”.
Boro non beve alcolici, ha smesso di bere dopo la guerra penso, gli stessi amici mi dicono che beveva solo quando andava oltre le linee per farsi forza o per sentire meno dolore. Non so se ciò è vero ma questa cosa mi fa vedere questa massa d’uomo come un ciclope con il cuore d’oro.
Io so solo che l’ho personalmente accompagnato un pezzo durante queste "trasferte” ed insieme abbiamo camminato, zigzagando tra le diverse mine anticarro e antiuomo.
Prendiamo un caffè insieme, poi ci spostiamo al mercato. Mi piace girare tra le bancarelle, vedere le povere mercanzie in vendita, soprattutto i banchi dei contadini che portano i frutti della loro terra; rape, rafano, cipolle, peperoni, patate, ma anche funghi e fiori, e poi ancora ricotta, formaggi, salumi e ogni tipo di acquavite.
Compro una piccola composizione di fiori per Edita, Branca, Enza e Anita, vado poi in quel lato di mercato dove vendono abbigliamento, devo fare piccoli acquisti. Ci raggiunge Boro che ci porta a fare una visitina al castello di Dubovac.
I viali che conducono verso il quartiere di Dubovac sono un ricordo del periodo di dominio francese tra il 1804 e il 1809 dove costruirono diverse strade tra le quali il viale dei platani che porta ancora il nome di Marmont, bell’esempio di classicismo continentale, all’epoca credo che Dubovac non fosse parte integrante di Karlovac, tanto che la chiesa parrocchiale della Madonna delle nevi doveva essere un importante punto di ritrovo ai piedi della quale la cittadina si organizzava, chiesa comunque riedificata intorno al 1734 in stile barocco.
Arriviamo al castello, dalla sua collina si può ammirare tutta Karlovac, questo maniero ha conservato la forma rinascimentale, costruito probabilmente intorno al XV /XVI secolo, nel periodo più doloroso per le guerre ottomane in corso, ma recenti scavi gli attribuiscono altri due secoli in meno I padroni più conosciuti sono quelli del Bano ( Vice Re) Stjepan Frankopan, che lo aveva rilevato nel 1442 dalla famiglia feudale degli Zudar.
Il castello ha una bella torre quadrata, al cui interno nei 4 piani è stato organizzato un percorso museale che riporta la sua storia, quella della contea e dei vari stili architettonici presenti nel castello. Dalla sua cima, con il belvedere a forma di loggiato, si ammirano i magnifici paesaggi montani che lo circondano e nel quale è immerso. Dallo spazio museale si passa alle due torri rotondeggianti, tra le quali su due piani si trovavano le abitazioni e i magazzini.
Durante i miei primi viaggi avevano alloggiato ripetutamente al castello, soprattutto durante la guerra; se non erro in una torre aveva trovato alloggio ripetutamente anche il Maresciallo TITO nelle sue visite a Karlovac.
Dallo stesso punto panoramico durante le notti della guerra si potevano vedere i traccianti dell’armata jugoslava che cannoneggiava la città di Karlovac, tristissimi ricordi ma ancora vivi nei miei pensieri.
I nostri "piccioncini” Stefano ed Enza appaiono i castellani del luogo, da come si atteggiano, Lui cavaliere medievale pronto a servir la gentile donzella, talvolta un po’ goffamente ma sempre pronto e disponibile, Lei da buona siciliana, bella presenza, minuta, capelli lunghi nero fumo, come gli occhi, non si fa scappare le attenzioni.
Di professione Enza fa il medico ed io da poco entrato della seconda giovinezza, l’ho assunta come mia pediatra.
Da Dubovac ci spostiamo in un bel ristorante e lì cerchiamo di non fare brutta figura a tavola, visto che il pranzo è offerto da Boro, ma davanti ad una enorme palacinka ai mirtilli dobbiamo cedere. Ormai è tardi per andare sia a Zagabria che ai laghi, abbiamo prenotato in un ristorante per la cena un succulento piatto di carne di maiale allo spiedo e non possiamo permetterci di mancare.
Decidiamo di fare una visita alla città e ai dintorni, lasciamo i nostri accompagnatori e mi appresto a fare da guida ai miei graditi compagni di viaggio.
Raggiungiamo Turany sulla Korana, chiamata così per una torre (ormai scomparsa) edificata nel 1582 per difendere il ponte sul fiume. La cittadina ha avuto una rilevante importanza strategica durante l’ultimo conflitto, diventando un caposaldo per il fronte che da questo borgo transitava.
Delle case distrutte, della scuola praticamente rasa al suolo, della chiesa cannoneggiata rimangono solo vaghi segni, che solo chi ha vissuto quei luoghi in quei momenti può ricordare.
Sono sulle strade di questo borgo che insieme a Boro, ancor prima arrivassero le truppe di peacekeeping, zigzagavamo a piedi tra le mine anticarro poste sulla strada asfaltata. La bandiera jugoslava che sventolava su una casa in cima alla collina la distinguevamo bene, senza la necessità del cannocchiale ed ancora ora quella casa è lì ad attendermi.
La vecchia caserma asburgica che era a difesa del ponte era stata per me e per i miei compagni di viaggio, luogo di riparo proprio in quei giorni di maggio dell’offensiva bellica, li avevo conosciuto molti militari di quell’improvvisato esercito croato e con loro avevo lì pranzato e riposato.
Ora di quelle vecchie caserme, è rimasto solo lo scheletro, furono colpite da cannoneggiamenti violenti nelle settimane successive a uno dei tanti viaggi fatti.
I loro scheletri, unitamente a vecchi carri armati russi e americani della seconda guerra mondiale nonché a cannoni di ogni tipo usati nell’ultima guerra, fanno da cornice a un Mig (aereo da caccia) dell’aviazione Jugoslavia distrutto dalla contraerea croata, nel piazzale antistante alle caserme ormai distrutte, quale memoriale a quella drammatica guerra.
Fanno bella mostra in un angolo del cortile, due strani mezzi blindati, usati dai croati durante il conflitto, ricordo di averli visti girare per le vie cittadine, un trattore e un camion su cui erano state saldate spesse lastre di metallo, armate di mitragliatrici.
Un passo a Kamensko devo farlo, per me è tappa obbligata per il restaurato convento Paolino con la chiesa della Beata Vergine delle nevi. Durante il conflitto era stato devastato da animose persone che trovavano nella distruzione di ciò che è la storia di un luogo la forza per affermare la propria crudeltà.
Delle fotografie poste all’interno del chiostro, ricordano quei difficili momenti. L’altare tutto nero, in puro stile barocco pare ancor più maestoso nella piccola chiesa tutta bianca.
Non si può non portare i miei compagni di viaggio nel centro di Karlovac, in piazza Bano Jelaĉiĉ ove si trova il convento francescano della santissima Trinità, sull’altro lato della piazza sorge la chiesa ortodossa di San Nicola, che durante il conflitto fu rasa al suolo ed ora è totalmente riedificata.
Assistiamo all’uscita della chiesa di un corteo nuziale, il caos e la festa intorno agli sposi è grande, molti uomini e donne, giovani e meno giovani, vestono costumi tradizionali e lanciano sugli sposi, accolti dalla banda musicale, petali di rosa: sono accompagnati verso la vettura che li porterà a un lunghissimo pranzo nuziale, dalla bandiera croata sventolata dai coetanei dello sposo. Il Corteo si muove chiassoso e lento.
Al centro della piazza svetta una stele votiva dedicata alla madonna, eretta nel 1691 dopo l’epidemia della peste ed una particolare fontana del 1869 decorata con le immagini allegoriche dei fiumi che circondano la città.
In questa piazza, due lati sono occupati da due imponenti edifici militari di epoca asburgica, voluti da Giuseppe II e Maria Teresa quali caserme di una città-guarnigione.
In queste caserme, ormai vuote, durante i primi viaggi avevamo scaricato gli aiuti da distribuire agli sfollati.
Con l’arrivo della Nazioni Unite e dell’ACNUR, diverranno centri di accoglienza degli sfollati che dalla campagna e dalle altre città colpite dal conflitto cercavano riparo a Karlovac.
Propri nei giorni in cui avvenivano gli scambi di prigionieri di guerra, ai quali partecipammo sia per il trasporto dei feriti che per l’accoglienza degli stessi, ho avuto modo di conoscere una giovane italiana chiamata a dirigere il centro sfollati dell’ACNUR di Karlovac, Alessandra MORELLI.
Le scene dell’arrivo dei prigionieri che erano riusciti ad ottenere la libertà non potrò mai dimenticarle.
Era ormai scuro, notte inoltrata di un rigido inverno, la luce della zona era molto fioca, facevano più luce le lampade delle telecamere dei giornalisti che le luci cittadine.
La calca delle madri, sorelle e mogli che spingevano su quel cordone di sicurezza improvvisato, gridando i nomi dei loro cari, nella speranza di trovare una voce di risposta era immensa.
L’animosità del momento diventava quella nottata momento di gioia e di lacrime di felicità quando qualcuno dei liberati urlava il nome di sua madre o di suo padre.
Faceva fatica il cordone di sicurezza a tenere queste persone che volevano riabbracciarsi, ma che ancora dovevano essere identificate e questo temporaneo allontanamento diventava di difficile comprensione per quelle madri che avrebbero voluto riportarsi il figlio a casa. Ma si consolavano subito sapendo che era vivo.
Qualche bambino, passava tra le gambe dei poliziotti e raggiungeva il proprio papa, scene che nemmeno nei film dei migliori registri possono essere rappresentate con quel patos che in quel momento vivi, nel vedere la felicità negli occhi di quella piccola creatura e sinceramente non saprei descrivervi nemmeno la lucentezza degli occhi umidi di lacrime di quel padre.
Con Noi, durante quel viaggio c’era un giornalista alessandrino, Dino Crocco, che tenta di riprendere quei momenti con la telecamera, quelle immagini sono "forti”, spegne la telecamera e con gli occhi lucidi rinuncia alle riprese, gli ricordano la nostra seconda guerra mondiale e la sua gioventù.
Nella scuola superiore che si affaccia proprio su questa piazza, mi è impossibile non ricordare e raccontare gli sguardi terrorizzati di quelle tante piccole creature a cui mi sono affezionato, adottandoli simbolicamente tutti, trovati nelle buie cantine di questa scuola.
Erano i bambini dell’Istituto cittadino (orfanotrofio) che durante l’assedio cittadino avevano lì trovato riparo.
Già noi per arrivare in città avevamo percorso strade secondarie, anche sterrate, a luci spente, parcheggiato i mezzi in cortili chiusi, corso velocemente a raso dei muri per entrare di porta in porta, sperando che i cecchini posti sulle case più alte non facessero di te e dei tuoi compagni di viaggio il gioco del tiro al bersaglio.
Poi quell’incontro, quella cinquantina di piccole creature, con gli occhi sbarrati nel buio più totale di quella angusta cantina, coricati su un letto di materassi. Non piangevano, non urlavano, avevano già finito sia le lacrime che la voce, gli siamo sembrati dei marziani, gente che parlava una lingua sconosciuta, cercavamo di portare affetto, ma che loro non potevano comprendere da uno straniero e pertanto ti fuggivano.
Mi affezionerò a loro, per loro farò molteplici viaggi a Karlovac, sia per aiutare l’Istituto a riavviarsi senza quelle ristrettezze che il dopo guerra gli avrebbe imposto, sia per portare anche semplicemente momenti di felicità con dei giochi o portarli a mangiare un gelato.
I visi di quei bimbi, oramai maggiorenni, non posso dimenticarli, come non posso dimenticare quelli venuti dopo di loro, ma non posso nemmeno dimenticare come le famiglie della mia città adottarono simbolicamente oltre 200 bambini, sia appartenenti a quell’istituto come ad altri: molti, troppi figli e orfani di quella strana guerra.
I bambini così simbolicamente adottati, ricevevano regolarmente un pacco di aiuti che le famiglie alessandrine nominativamente gli inviavano fino alla fine della guerra.: facevo semplicemente il postino, ma ero felice di far quel mestiere.



La giornata successiva è dedicata ad una visita a Zagabria, dopo la messa seguita nel convento francescano di Karlovac, aver salutato gli amici con ampi abbracci e gli immancabili lacrimoni di Boro, l’affettuosità e le raccomandazioni di Edita, ci dirigiamo verso la capitale, prima di far ritorno in Italia.
Riusciamo a trovare parcheggio in Trg Marŝala Tita, ove si affaccia il Teatro Nazionale croato, sono molte le cose che si possono vedere, ma dobbiamo limitarci a vedere il possibile in quanto il tempo è veramente poco.
Il punto di partenza, cuore di Zagabria, anche se non geografico è costituito da Trg Josip Jelačića, che fu il Ban (vice re) che nel XIX secolo guidò l’esercito croato in una sfortunata battaglia contro l’Ungheria, nella speranza di ottenere maggiore autonomia per il suo popolo.
La sua statua equestre fu rimossa dalla piazza nel 1947 da Tito, ritenendo che rappresentasse il nazionalismo croato. Nel 1990 il nuovo governo, tra le prime decisioni che assunse, prese quella di ricollocarla al centro della piazza nella sua antica posizione.
Da qui la scelta è semplice; saliamo nella città alta che ha il suo centro in Kaptol trg, raggiungiamo Dolac, un quartiere con una bella piazza ove si svolge un bellissimo mercato della frutta e verdura, ove i contadini portano i loro prodotti per essere venduti direttamente al pubblico.
Dopo aver lasciato il mercato, con i colori delle mele gold posizionate a piramide che gareggiavano con quelle rosse e quelle verdi, dove i porri, posti in fila come i soldatini e i ravanelli raggruppati a mazzetto sembravano tanti mazzi di fiori, dove le varie forme delle insalate sembrano ringraziare madre natura per i colori di cui erano dotate e che anche le accorte massaie scelgono con cura tra le rape migliori e i peperoni più polposi, percorriamo con sguardo attento le vie di Kaptol, ricche di colorati negozi e di moltissimi posti di ritrovo come bar, pub, ristoranti per la gioventù zagabrese.
Ci ritroviamo alla porta di pietra, antica porta medievale che da accesso alla città più vecchia (Gornji Gradec): la porta di accesso è diventata ora un santuario, qui racconta la popolazione locale che un grande incendio (1731) devastò e distrusse la porta di legno, mentre si salvò soltanto un dipinto raffigurante una madonna con bambino.
Da quel momento gli zagabresi attribuirono capacità taumaturgiche al dipinto, diventando presto luogo di preghiera ove accendere un cero, portare un fiore o collocare alle pareti un ex voto per la grazia ricevuta.
Subito fuori dalla porta, ci soffermiamo ad ammirare la statua di Dora, graziosa statuina dorata raffigurante una giovane fanciulla, oggetto di un romanzo d’amore del XVIII secolo e che avrebbe abitato in una casa vicino a quella porta d’accesso alla città, insieme al padre.
Sosta per foto davanti alla più antica farmacia di Zagabria, aperta dal nipote di Dante Alighieri, una targa in marmo ricorda il nipote del nostro poeta e mio omonimo.
Luca si pone come un novello epigone, trae la posa dalle più antiche statue di Narciso, da corona i "piccioncini” a formare un quadro rinascimentale.
Passando di fianco all’antico collegio dei gesuiti arriviamo in Markov trg, vero cuore pulsante politico della Croazia. In questa piazza si affaccia il Sabor, il parlamento croato, palazzo in stile neoclassico dal quale nel 1918 fu proclamata l’indipendenza dall’impero austro-ungarico.
Si affaccia di fronte il Banski Dvori (palazzo del Ban) un tempo sede del vice re oggi sede del Presidente della Repubblica.
E’ sconvolgente come in questa piazza non vi siano forze di polizia se non la Guardia al palazzo presidenziale: tra l’altro si può assistere al cambio della guardia da aprile a settembre di tutti i venerdì, sabato e domenica a mezzogiorno.
Al centro della piazza, la chiesa di San Marco, eretta nel XIII secolo, con caratteristico tetto fatto di mattonelle colorate: sul lato sinistro sono disegnati gli stemmi medievali della Croazia, Dalmazia e Slavonia, dal lato destro campeggia lo stemma di Zagabria.
Il campanile è ricostruito in quanto quello precedente fu distrutto dal terremoto del 1502.
Per allontanarsi dalla piazza raccolgo a me Luca, Stefano ed Enza e avvicinandoli a una pietra scolpita con un viso di un antico contadino, posta all’incrocio della piazza con via Cirilometodska, racconto loro come quella scultura rappresenti la testa di Matjia Gubec, un contadino che guidò una famosa rivolta, finita nel sangue: la storia non ci dice se costui fu decapitato in quella piazza o li fu arso su un trono costruito appositamente per il povero Matjia.
Transitiamo davanti alla sede municipale di Zagabria posta proprio nella via dedicata a Cirillo e Metodio, prima di raggiungere il bel vedere dalla torre Lotrščak, costruita a difesa della porta meridionale: purtroppo mezzogiorno è passato da un pezzo e quindi non possiamo ammirare e sentire lo sparo del cannone che avviene tutti i giorni.
Ci fermiamo davanti alla chiesa di Santa Caterina, un tempo chiesa dei gesuiti; non posso non far notare come molteplici chiavi leghino la chiesa, segno dei molti terremoti subiti, fanno bella mostra sulla facciata della chiesa sia le statue dei quattro apostoli, collocati nelle loro nicchie ma anche la statua di Santa Caterina che impugna la palma del martirio con la ruota, simbolo dello strumento di tortura e morte. Santa Caterina è la santa patrona della Croazia.
Un rapido pasto, fatto in un locale per turisti in un vicoletto della parte alta della città, ove pranziamo distratti dal via vai di gente, turisti, studenti e venditori ambulanti che transitano con le loro mercanzie dal vicino mercato dei fiori. Tanta bella gente, tutti con il sorriso sul volto, sempre pronti ad un timido saluto di riconoscenza.
Vogliamo chiudere la rapida visita zagabrese con due ultime visite, la prima alla Cattedrale dell’Assunzione della Beata Vergine, un tempo cattedrale di Santo Stefano. Le sue due guglie gemelle svettano su tutta la città facendo di questa chiesa, un punto di riferimento per ogni visitatore.
L’interno è sontuoso, non posso non soffermarmi a far ammirare ai miei compagni di viaggio il trittico di Dűrer sull’altare laterale destro, la splendida ricostruzione della crocifissione di Gesù tra i due ladroni e la scrittura glacolitica che è impressa sulla pietra di una navata.
Ultima tappa prima di ripartire è al Boban caffè, un caffè di giovani zagabresi e di sportivi che vogliono o sperano di incontrare il Boban ex-calciatore del Milan.
Lasciamo Zagabria e la Croazia, il viaggio ci pare più lungo, sarà la stanchezza, sarà la birra bevuta, sarà la ricchezza delle cose viste e vissute, sarà la tristezza che ti assale quando lasci un posto e degli amici a cui ti affezioni.
Io ho la certezza che ci tornerò tra qualche tempo, è una promessa, cosa che mantengo sempre!