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Chiaroscuri nella città eterna (V parte)

Domenica 13 Luglio 2014 09:45
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RomaFinalmente sono entrato nel Pantheon, dove voglio soffermarmi innanzitutto ad ammirare e raccogliere le idee davanti alla tomba di Raffaello Sanzio (Urbino,1483 – Roma, 1520), forse il pittore e architetto del Rinascimento italiano da me più particolarmente apprezzato. Le spoglie dell'artista sono raccolte in un sobrio sarcofago di marmo, arricchito da una iscrizione latina di Pietro Bembo: "Ille hic est Raphael, timuit quo sospite vinci Rerum magna parens et moriente mori", ("Questo è Raffaello dal quale la natura temette di essere vinta e, mentre egli moriva, di morire anch'essa"). Il sarcofago è sormontato dalla statua della Madonna del Sasso. Questo luogo mi ha sempre affascinato proprio per la semplicità della tomba che contrasta con la regale potenza delle vicine tombe dei Savoia, rendendo ancor più elevato il valore dell'artista.
Occorre però sapere che la sistemazione attuale della tomba è risalente al 1911 e non è quella che Raffaello chiese nel suo testamento, o lo è parzialmente, come ci riporta infatti il Vasari che scrive che egli fece restaurare un tabernacolo in Santa Maria "Ritonda", ovvero Santa Maria ad Martyres, con una statua della Madonna ed un altare, al di sotto del quale volle essere seppellito.
Infatti per secoli la tomba dell'artista non stava li allocata, anzi si credeva fosse altrove, sia perché non era visibile, sia perché l'Accademia di S. Luca riteneva di possedere il teschio creduto di Raffaello, davanti al quale si racconta che anche Goethe fosse rimasto in lunga venerazione. Inoltre il Commissario delle Antichità e notissimo personaggio dell'epoca, Carlo Fea, (1753 – 1836 ) sosteneva che i resti del pittore fossero conservati nella Cappella degli Urbinati, presso la chiesa di Santa Maria della Minerva.
Fu per sciogliere questi dubbi e definire la questione che nel giugno 1833 si decise di far eseguire degli scavi intorno all'edicola della Madonna del Sasso, facendo rinvenire una cassa di abete ricoperta di calce contenente i resti dell'artista. Luigi Biondi, l'allora presidente dell'Accademia di Archeologia, ebbe così modo di confermare l'autenticità delle spoglie che furono esposte al pubblico per qualche giorno e di cui ovviamente il Belli scrisse dei sonetti. Uno di questi terminava così: «Trovi uno schertro in de la terra smossa? Ebbè, senza de fa ttanti misteri, Aributtelo drentro in de la fossa».
La ricollocazione al di sotto dell'arco, dove fu ritrovata, avvenne il 18 ottobre 1833, festa di S. Luca, con grande solennità. Le ossa furono disposte prima in una cassa di pino, e poi nel sarcofago di marmo, proveniente dai magazzini del Museo Vaticano e donato dal Pontefice Gregorio XVI.
Un blocchetto di marmo posto in terra, poco davanti al sarcofago con l'iscrizione ottocentesca, indica il luogo della precedente sepoltura di Raffaello.
Nel 1911, a causa della sistemazione della cappella sepolcrale di Re Umberto I, furono spostate alcune lapidi ai lati dell'edicola. La rimozione di una lapide portò alla scoperta di un foro, che dava accesso ad un luogo di forma irregolare colmo di ossa maschili. Lo scheletro ricomposto mancava del teschio, venne per questo riconosciuto come appartenente al canonico Desiderio d'Adiutorio, di cui il cranio si conserva nelle sale della Congregazione dei Virtuosi, ma che nel 1833 era all'Accademia di S. Luca, e ritenuto erroneamente quello di Raffaello.
Nel gennaio del 1878, in occasione della morte del primo Re d'Italia Vittorio Emanuele II, il Pantheon fu scelto quale dimora delle salme dei Reali d'Italia.
La tomba che merita una sosta e un momento di riflessione è quella del "padre della Patria"; Vittorio Emanuele II di Savoia (Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia; (Torino, 14 marzo 1820 – Roma, 9 gennaio 1878); l'ultimo re di Sardegna e il primo re d'Italia.
Ripercorriamo insieme le ultime ore del re, come le tramanda la storia: A fine dicembre dell'anno 1877 Vittorio Emanuele II, appassionato di caccia passò una nottata all'addiaccio presso il lago nella sua tenuta di caccia laziale. L'umidità di quell'ambiente gli risvegliò forse malanni nascosti e gli risultò così fatale. Altri storici ritengono invece che le febbri che portarono alla morte Vittorio Emanuele erano invece febbri malariche, contratte nelle zone paludose del Lazio proprio andando a caccia. Si racconta che nella serata del 5 gennaio 1878, dopo aver inviato un telegramma alla famiglia di Alfonso La Marmora, che era recentemente scomparso, il re avvertì i forti brividi della febbre. Il 7 gennaio venne divulgata la notizia che il Re era moribondo ed il Papa Pio IX colse l'occasione per l'ormai imminente scomparsa del sovrano per inviare al Quirinale monsignor Marinelli, incaricato di accordare al Re morente i sacramenti ma forse più realisticamente per indurlo ad una ritrattazione sulle note vicende relative all'unità nazionale. Il prelato non fu ricevuto ed il re ricevette gli ultimi sacramenti dalle mani del suo cappellano, monsignor d'Anzino. Il 9 gennaio alle ore 14:30 il Re morì dopo 28 anni e 9 mesi di regno, assistito dai figli ma non dalla moglie morganatica, Rosa Vercellana, a cui fu impedito di recarsi al capezzale dell'amato marito.
Benché Vittorio Emanuele II avesse ripetutamente espresso il desiderio di essere sepolto in Piemonte, nella Basilica di Superga, suo figlio Umberto I, accondiscese alle richieste del Comune di Roma, e concordò che salma rimanesse in città, nel Pantheon. Edmondo de Amicis, nel suo libro "Cuore" così descrive il funerale di Vittorio Emanuele II: «... ottanta veli neri caddero, cento medaglie urtarono contro la cassa, e quello strepito sonoro e confuso, che rimescolò il sangue di tutti, fu come il suono di mille voci umane che dicessero tutte insieme: - Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole sopra l'Italia.» Da subito la sua tomba divenne la meta di pellegrinaggi di una moltitudine di italiani, provenienti da tutte le regioni del Regno ed ancora oggi molti gli vanno a porgere un deferente saluto.
Stendendo il suo primo proclama alla nazione, Umberto I (che adottò il numerale I invece del IV, che avrebbe dovuto mantenere secondo la numerazione sabauda), così si espresse: « Il vostro primo Re è morto; il suo successore vi proverà che le Istituzioni non muoiono!» (Leone Carpi, Il risorgimento italiano, F. Vallardi, 1884, pag.154). Il re Umberto I (Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia; (Torino, 14 marzo 1844 – Monza, 29 luglio 1900), figlio di Vittorio Emanuele II e di Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena, regina del Regno di Sardegna che morì nel 1855, è sepolto di fronte al padre e regnò dal 1878 al 1900. Il suo regno fu contrassegnato da diversi eventi, che produssero opinioni e sentimenti opposti negli italiani ed ancora oggi il suo atteggiamento è oggetto di discussioni. Viene ricordato positivamente come quando fronteggiò sciagure quali l'epidemia di colera a Napoli del 1884, ove si prodigò personalmente nei soccorsi (perciò fu soprannominato "Re Buono"), e per la promulgazione del codice Zanardelli (codice penale) che abolì la pena di morte. Fu invece aspramente avversato per il suo conservatorismo, per l'avallo che diede alle repressioni dei moti popolari del 1898 e per il suo indiretto coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana. Azioni e condotte politiche che gli comportarono almeno tre attentati nell'arco di 22 anni, fino a quello che a Monza, il 29 luglio 1900 per mano dell'anarchico Gaetano Bresci, gli sarà fatale. Gli anarchici soprannominarono Umberto I "Re Mitraglia", ma è anche ricordato come destinatario di uno dei biglietti partoriti dalla follia di Friedrich Nietzsche: «Al mio amato figlio Umberto. La mia pace sia con te! Martedì verrò a Roma e voglio vederti insieme a Sua Santità il Papa. Il Crocefisso», scritto il 4 gennaio 1899.
Vicino alle tombe dei re troviamo le tombe delle regine, delle quali la prima è quella di Margherita Maria Teresa Giovanna di Savoia (Torino, 20 novembre 1851 – Bordighera, 4 gennaio 1926), consorte di Umberto I di Savoia. Indro Montanelli, in Storie d'Italia vol. 2, così la definì: «Era una vera e seria professionista del trono, e gli italiani lo sentirono. Essi compresero che, anche se non avessero avuto un gran Re, avrebbero avuto una grande Regina ». Giosuè Carducci, dopo un incontro con la regina, le dedicò queste righe: « Ella stava diritta e ferma in mezzo la sala; [...] troneggiava ella da vero in mezzo la sala. Tra quelli abiti neri a coda, come si dice, di rondine, e quelle cravatte bianche, ridicole insegne d'eguaglianza sotto cui l'invidia cinica del terzo stato accomunò l'eroe al cameriere, ella sorgeva con una rara purezza di linee e di pòse nell'atteggiamento e con una eleganza semplice e veramente superiore sí dell'adornamento gemmato sí del vestito (color tortora, parmi) largamente cadente. In tutti gli atti [...] mostrava una bontà dignitosa; ma non rideva né sorrideva mai [...] e tra ciglio e ciglio un corusco fulgore di aquiletta balenava su quella pietà di colomba.»
Dopo l'ennesimo attentato al consorte, che la scosse non poco, fu ospitata dal barone Bischoffsheim nella villa Etelinda a Bordighera; quella esperienza nella tranquilla cittadina del Ponente ligure fece modo che nel 1914 vi acquistò una villa con giardino e che fu trasformata dall'architetto Luigi Broggi nella attuale splendida Villa Regina Margherita. Dal 1916 la regina si ritirava nell'amata villa di Bordighera da maggio a dicembre, e ivi vi morì il 4 gennaio 1926.
Margherita, dopo le onoranze funebri officiate prima a Bordighera e poi a Roma, fu tumulata nelle tombe reali del Pantheon. Si racconta che al passaggio del convoglio ferroviario una folla commossa ostacolava e rallentava l'andamento dello stesso, per potersi avvicinare e gettare fiori.
Le tombe reali sono quotidianamente vigilate da membri dell'Istituto nazionale per la guardia d'onore alle reali tombe del Pantheon. La principale attività dell'Istituto è il servizio di Guardia d'Onore alle tombe sia presso il Pantheon che a quelle di re Vittorio Emanuele III ad Alessandria d'Egitto, della regina Elena a Montpellier, di re Umberto II e della regina Maria José ad Altacomba in Francia. Infine l'Istituto si pone come obiettivo il trasferimento definitivo nel Pantheon di tutti quei sovrani d'Italia e delle rispettive consorti, a tutt'oggi sepolti al di fuori del territorio nazionale.
L'aspetto del Pantheon, quando non vi è officiata messa, non è proprio quello di una chiesa, tanto che gli addetti alla vigilanza devono ripetutamente richiamare i gruppi di turisti al silenzio, doveroso per un luogo di preghiera.
Interessante sapere, anche se il passante frettoloso non se ne accorge, che il pavimento sottostante è stato costruito appositamente con una forma leggermente convessa per permettere il defluire dell'acqua piovana, che entra dall'oculo della cupola, verso i canaletti posti nel perimetro della struttura.
Altri importanti, anche se meno noti, personaggi della storia sono sepolti nel Pantheon, spesso dimenticati anche dagli stessi romani, come ad esempio Annibale Carracci (Bologna, 1560 – Roma, 1609) noto pittore italiano sepolto, come da sua volontà, di fianco alla tomba di Raffaello. Sul luogo della sua sepoltura è ancora possibile leggere l'iscrizione fatta apporre nel 1674 da Carlo Maratta (anch'esso noto pittore e restauratore della pittura romana) che voleva così commemorare l'egual valore di Annibale a quello di Raffaello: «D.o.m./ Hannibal Caraccius bononiensis/ hic est/ Raphaeli Sanctio urbinati/ ut arte, ingenio, fama sic tumulo proximus/ par utrique funus et gloria/ dispar fortuna/ aequam virtuti Raphael tulit/ Hannibal iniquam / decessit die xv jvlii an. mdcix aet. xxxxix/ Carolus Marattus summi pictoris/ nomen et studia colens p. an. mdclxxiv/ arte mea vivit natura, et vivit in arte/ mens decus et nomen, coetera mortis erant».
Ma vi è anche Arcangelo Corelli (Fusignano1653 – Roma, 1713) compositore e violinista italiano, considerato tra i più grandi compositori del periodo barocco; Giovanni Nani (Nanni), o Giovanni de' Ricamatori, meglio conosciuto come Giovanni da Udine (Udine, 1487 – Roma, 1561), architetto italiano, pittore e decoratore, considerato uno dei più brillanti allievi e collaboratori di Raffaello; Piero di Giovanni Bonaccorsi (detto Perino del Vaga o Perin del Vaga - Firenze, 1501 – Roma, 1547), pittore, allievo a Firenze di Ridolfo del Ghirlandaio, e a Roma collaboratore di Raffaello. È sepolto nella cappella di San Giuseppe del Pantheon con questo epitaffio: Perino Bonaccursio Vagae florentino, qui ingenio et arte singulari egregios cum pictores permultos, tum plastas facile omnes superavit, Catherina Perini coniugi, Lavinia Bonaccursia parenti, losephus Cincius socero charissimo et optimo fecere. Vixit annos 46, menses 3, dies 21. Mortuus 14 Calendis Novembris Anno Christi 1547.
Una breve sosta anche davanti alla sepoltura di Baldassarre Tommaso Peruzzi (Ancaiano (Siena), 1481 – Roma, 1536) architetto, pittore, scenografo e ingegnere militare. Vasari riferisce che morì vecchio, in grande povertà, con una numerosa famiglia da mantenere e probabilmente avvelenato da rivali professionali. Nel 1921 i senesi recuperando il testo della lapide riportata da Vasari posero nel Pantheon questa epigrafe: «Balthasari Perutio senensi viro et pictura / et architectura altisque ingeniorum artibus / adeo excellenti ut si priscorm occubuisset / temporibus nostra illum felicius legerent / vix ann lv mens xi dies xx / lucretia et jo salustius optimo coniugi et / parenti non sine lacrymis simonis honorii / Claudii Aemiliae ac sulpitiae minorum eiliorum / dolentes posuerunt / die iiii januarii mdxxxvi / restutuita all'onore del Pantheon / a cura dei senesi mcmxxi».
Invece il pittore Federico Zuccari (1539 – 1609 ) volle collocare un busto di marmo sulla tomba del fratello Taddeo (Sant'Angelo in Vado, 1529 – Roma, 1566), pittore di spicco del manierismo che a Roma fu influenzato dal Correggio e da Raffaello, ponendo sulla lapide la seguente iscrizione: "D.o.m. Taddeo Zuccaro in oppido divi angeli ad ripas metauri nato pictori eximio ut patria moribus pictura raphaeli urbinati simillimo et ut ille natali die et pot annum septimum et trigesimum federicus fratri suavis moerens pos anno christianae sal m d l xvi". Tra gli altri possiamo ricordare anche Flaminio Vacca (Roma, 1538 – Roma, 1605), scultore italiano di famiglia spagnola, inumato nel Pantheon sotto una lapide che recita: Flaminio Vaccae / sculptori romano / qui in operibus quae fecit / nusquam sibi satisfecit (A Flaminio Vacca / scultore romano / che dell'opere che fece / quasi mai si soddisfece).
Non importa se è la prima o la centesima volta, ma quando vengo al Pantheon per me è sempre una continua scoperta ed è piacevole riconoscere, calpestare, toccare i suoi marmi e mattoni carichi di anni di storia, ogni volta lo trovo sempre più affollato e ogni volta ci sono sempre meno romani e più stranieri.
È ora di uscire all'esterno, ripassare sotto la porta principale di bronzo che risale anch'essa all'epoca dell'antica Roma, transitare sotto il suo pronao colonnato d'accesso costituito da ben 16 colonne di granito alte 14 metri e chiedermi per l'ennesima volta se sono sporche per l'inquinamento o per la loro storia millenaria.
Un'altra curiosità, e la si può cogliere soltanto all'esterno del Pantheon, la possiamo notare guardando in alto verso la facciata. Nascosto anche dal frontone (alla cui base c'è la dicitura in cui se ne ricorda l'autore: Marco Vispanio Agrippa, genero dell'imperatore Augusto), si può osservare uno dei probabili errori degli antichi architetti. Infatti, dietro al pronao, vi sono vistose tracce di un altro frontone, più alto dell'attuale. Attuali studi affermerebbero che il progetto originario prevedeva una facciata più alta, ma siccome non furono trovate colonne sufficientemente alte, le dimensioni del frontale furono ridotte di misura.
Mentre mi reco nell'adiacente Piazza Minerva per vedere un altro obelisco, mi sovviene ciò che scrisse Marie-Henri Beyle, detto Stendhal, nelle Passeggiate romane, a riguardo del Pantheon: «così poco sofferto, che ci appare come dovrebbero averlo visto alla loro epoca i Romani», ritenendolo un pensiero audace ma comunque basato su un fondamento storico di verità, dandogli ragione, accomuno indegnamente il mio pensiero a quello del più noto scrittore.
Raggiungo così, dopo aver percorso poche decine di metri sul lato sinistro del Pantheon, la Piazza della Minerva, che prende il nome dal Tempio di Minerva Chalcidica di età domiziana e che sorgeva allo sbocco di via del Piè di Marmo su Piazza del Collegio Romano. Sui suoi ruderi è stata costruita la chiesa di Santa Maria sopra Minerva che s'affaccia sulla piazza. Al centro di questa piazza si erge l'obelisco ritrovato nel 1665 nell'area del vicino Tempio di Iside, detto Iseo Campense ( Campo Marzio). Intorno alla piazza alberghi pluristellati ed una innumerevole serie di negozietti d'antiquariato. L'obelisco qui eretto è il più piccolo di Roma, infatti è alto appena m 5,47, ma assieme al basamento, sormontato da un elefantino che regge la stele sulla groppa, e alla croce terminale raggiunge l'altezza di m 12,69. E un obelisco egizio del VI sec. a.C. eretto a Sais dal faraone Aprie, in granito rosa e con geroglifici su tutte 4 le facciate. Fu portato a Roma da Domiziano e posto appunto nell'Iseo Campente. Il piccolo monolito venne successivamente innalzato a Roma nel 1667 su un curioso punto di appoggio disegnato da Gian Lorenzo Bernini a forma di elefantino. Fu papa Alessandro VII Chigi (1655-67) che consigliò Bernini di poggiare il monolito direttamente sulla groppa dell'elefantino, come fu lo stesso papa a volere che fosse incisa, oltre all'epigrafe di memoria storica, la seguente di carattere filosofico: sapientis aegypti / inscvltas obelisco figuras/ ab elephanto/ bellvarvm fortissima/ gestari qvisqve hic vides/ docvmentvm intellige/ robvstae mentis esse/ solidam sapientiam svstinere, ovvero: "Chiunque tu sia, puoi qui vedere che le figure (cioè, i geroglifici) del sapiente Egitto scolpite sull'obelisco sono sostenute da un elefante, il più forte degli animali: capisci l'ammonimento, che è proprio di una robusta mente sostenere un solida sapienza".
I Romani chiamano questo elefantino "il pulcino", e non è desueto sentire i romani darsi appuntamento sotto il pulcino.
Da qui mi infilo nei vicoli del centro storico per raggiungere una nuova meta e raccogliere nuove emozioni.



Fine V parte.