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Luci ed ombre a Torino (XXVI parte)

Domenica 03 Agosto 2014 11:21
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Igor KarkaroffSeduto in seconda classe, vedo scorrere intorno me i paesaggi dell'alessandrino e dell'astigiano in una giornata che si preannuncia interessante e affaticante. Il meteo mattutino ha preannunciato una giornata soleggiata ma non afosa che mi permetterà di fare una lunga camminata tra le luci ed ombre di Torino.
Quando il treno rallenta la sua corsa per entrare nella stazione di Porta Nuova mi corrono alla mente le immagini del film "Due amici", girato interamente a Torino e che fa vedere molto bene la Stazione di Porta Nuova. Il film, del 2002, diretto ed interpretato da Spiro Scimone e Francesco Sframeli è tratto dall'opera teatrale del 1994 "Nunzio" dello stesso Scimone. Un film presto dimenticato ma che ha vinto il premio Luigi De Laurentiis per la migliore opera prima alla 59ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, inoltre i due registi avevano ottenuto la nomination al David di Donatello 2003 nella categoria miglior regista esordiente.
La trama del film drammatico è quella che ricorda la storia degli emigrati a Torino e che si snoda tra le Vallette, zona Sansovino, corso Sommeiller e appunto Porta Nuova.
Nunzio e Pino sono due amici siciliani che vivono insieme in un appartamento. Nunzio è una persona semplice ed un po' ingenua, afflitto da una tosse persistente causata dalle polveri che aspira ogni giorno in fabbrica. Pino invece è un uomo molto schivo che lavora come killer per un pescivendolo. Pino viaggia in treno di continuo, alla ricerca degli individui che deve uccidere. Ovviamente l'amico non è a conoscenza della vera attività di Pino ed è affascinato dal continuo viaggiare dell'amico. Accade che Nunzio si innamora di Maria e l'amico Pino cerca in tutti i modi di aiutarlo a conquistare la ragazza, ma l'impresa si rivela inutile, in quanto Maria è già innamorata di un barista. Nunzio è affranto e Pino, affezionato all'amico, decide di lasciare la sua "attività", elimina il pescivendolo e insieme partono in treno decisi a cambiare vita.
Dopo aver degustato un buon caffè mi avvio lungo corso Vittorio Emanuele II, in direzione del Po. Corso Vittorio Emanuele II ebbe diverse denominazioni, come viale del Re, corso di piazza d'Arme, Via S. Avventore, viale dei Platani, ma ora è dedicato alla memoria del sovrano che portò all'unità nazionale, comunemente ricordato come "Padre della Patria". Si tratta di un viale quasi totalmente alberato, e lo è totalmente nella direzione che ho inteso intraprendere.
Attraversata la strada, transito sotto uno dei palazzi torinesi dalla facciata più affascinante e mi soffermo brevemente davanti all'ingresso del cinema che vi trova ospitalità al piano terreno. Il Cinema Ambrosio, recentemente ristrutturato, è intitolato a uno dei più grandi pionieri dell'industria cinematografica italiana. Questo edificio, ossia palazzo Priotti, lascia stupito chiunque si soffermi ad ammirarlo, sia per l'eleganza delle linee, ma sopratutto per le numerose statue e i molti pinnacoli posti al di sopra della facciata, ma anche per l'abbondanza di cornici floreali e cupolette, che decorano anche i bovindi, tutto in un festoso addobbo. Una delle tante opere, sorte quando a Torino sbocciò l'architettura floreale, ossia il liberty. Anche questo è un progetto di Carlo Ceppi, mentre la costruzione era stata avviata da Camillo Riccio, morto nel 1899. Subito dopo l'incrocio con via Carlo Alberto, un palazzo con maestoso ingresso d'angolo dove vi era un tempo il cinema Corso, uno dei locali più frequentati di Torino, e che andò distrutto dal fuoco il 9 marzo 1980, fortunatamente senza vittime, trovo un palazzo, in stile decò, che fu edificato nel 1926 su progetto dell'ing. Bonadé-Bottino.
Posta su questo edificio una lapide ricorda Edoardo Dario De Angeli (Torino, 1924-1945).
Costui, nato a Torino il 30 marzo 1924, era attivo come partigiano con il nome di battaglia di Mirko nelle Squadre d'Azione Patriottica. Militare, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, entra insieme a suo padre Riccardo, capitano degli alpini, a far parte dei primi nuclei di resistenza armata in montagna. Nel 1944, dopo l'arresto e la deportazione in Germania dei suoi genitori (il padre muore a Mauthausen) si trasferisce in Liguria, dove è protagonista di numerose azioni di sabotaggio. Rientrato a Torino si unisce alle unità partigiane operanti all'interno delle Ferriere Piemontesi. Viene riconosciuto il 4 febbraio 1945 da alcuni militari fascisti e ucciso con una raffica di mitra davanti all'ingresso del cinema Corso.
A fianco del cosiddetto palazzo del cinema Corso, diviso solo dall'ingresso della galleria che conduce al Cinema Nazionale e che ha ingresso principale in via Pomba,si trova il palazzo Martini e Rossi di Montelera.
Credo che sia ancora oggi sede legale della nota azienda vinicola; l'edificio con facciata con un disegno eclettico neorinascimentale, ha un tetto alla francese scandito dagli abbaini delle mansarde. Il progetto fu commissionato dalla Società Martini e Rossi all'ingegnere Camillo Riccio nel 1873. Il palazzo presenta un atrio nobiliare con bella cancellata e un bel giardino interno con una ardita statua femminea che innalza una conchiglia sopra la fontanella, un nudo considerato all'epoca "alquanto ardito", eretto con scopo ornamentale ma anche per esprimere venustà e opulenza.
Ma il palazzo ricorda soprattutto uno dei più grandi sindaci che Torino abbia avuto, Teofilo Rossi di Montelera, chiamato anche "il sindaco della Grande Esposizione" poiché fu il trascinatore sulle rive del Po dell'imponente rassegna del 1911 nel cinquantenario dell'Unità Nazionale.
Teofilo Rossi di Montelera (1865 – 1927) è stato un noto politico ed imprenditore italiano. Patrizio piemontese, sarà nominato conte, titolo concesso con regio decreto del 27 aprile 1911, e fu anche sottosegretario alle Poste nel terzo governo Giolitti e Ministro dell'Industria e Commercio nel Governo Facta. Dopo la marcia su Roma si schiera per una soluzione a favore dei fascisti. Eletto deputato del Regno nel 1897 e senatore dal 1909 è sopratutto ricordato come sindaco di Torino dal 1909 al 1917. Figlio di Luigi Rossi, socio nella nota azienda produttrice di vini e vermouth Martini & Rossi ( fondata nel 1847), si laurea in giurisprudenza all'Università di Torino nel 1886 e si dedica all'amministrazione dell'azienda e del patrimonio familiare.
Proprio la casa di corso Vittorio Emanuele II divenne il suo quartier generale ed una lapide posta sul palazzo lo ricorda. Oltre ad essere ricordato per la grande esposizione internazionale, come sindaco fece progettare un nuovo palazzo delle poste, inaugurò la sede della Scuola di guerra, estese le fognature cittadine ed ampliò la cinta daziaria. Fu inoltre promotore della costruzione dell'ospedale S. Luigi.
Ma se Teofilo Rossi di Montelera è ricordato come il Sindaco dell'esposizione internazionale, va detto che ciò fu reso possibile grazie alla caparbietà cavouriana di creare la prima città capitale italica, benché poi frustrata dall'inevitabile scelta di trasferire prima a Firenze e poi a Roma la capitale d'Italia.
Sicuramente la famiglia dei Rossi di Montelera, con tutta la classe sociale industriale torinese, riportò Torino all'attenzione della cronaca internazionale, facilitando attraverso le sue industrie, i suoi commerci e i suoi rapporti internazionali lo sviluppo industriale di fine XIX e buona parte del XX secolo. Fu sopratutto nel secondo dopoguerra, con il cosiddetto miracolo economico italiano, che Torino e sopratutto la Fiat fecero uscire Torino e la penisola italica dallo stato di depressione industriale, economica, sociale e commerciale in cui ci aveva lasciato il secondo conflitto mondiale.
Torino, proprio tra gli anni cinquanta e sessanta, ritroverà la centralità persa con lo spostamento della capitale a Roma, anche grazie ad un rilancio urbanistico e sociale della città, a cui ha contribuito il formidabile, anche se controverso, flusso migratorio. Oggi non è più la FIAT a rappresentare con le auto, le sue fabbriche e il suo indotto la città, ma la riscoperta del made in Italy, la sua storia cittadina e piemontese con i suoi palazzi, i suoi castelli, gli antichi musei e le moderne esposizioni, le sue tradizioni folcloristiche e la sua religiosità con la custodia della Sacra Sindone. Grandi eventi come La fiera del Libro, il salone del Cibo di Slowfood, passando per le olimpiadi di Torino 2006 hanno dato a Torino un nuovo Risorgimento.
Ed ecco che ripasso sotto il monumento a Massimo d'Azeglio che par mi sentirlo narrare ciò che scrisse nella prefazione nei Miei Ricordi, pubblicati postumi nel 1866 dalla figlia: "... L'Italia da circa mezzo secolo s'agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buono porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggior, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi nemici d'Italia non sono gli Austriaci, sono gl'Italiani. Perché?
Per la ragione che gl'Italiani hanno voluto far un Italia nuova, e loro rimanere gl'Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio; perché pensano a riformare l'Italia, e nessuno s'accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l'Italia, come tutti popoli, non potrà divenir nazione, non potrà essere ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero, come contro i settari dell'interno, libera e di propria ragione, finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani...". Come non dare ragione a queste parole su questo tema ancor oggi dibattuto. Un suo conoscente, il deputato Ferdinando Martini, in una intervista rilasciata alla Illustrazione Italiana del 16 febbraio 1896 riporterà il pensiero di Massimo d'Azeglio, confidatogli in un colloquio: "Se vogliono fare l'Italia, bisognerà prima che pensino a fare un po' meno ignoranti gli italiani".
Con queste parole in mente raggiungo e lentamente attraverso il ponte Re Umberto I, il più monumentale della città, lungo 124 metri e largo 23, a tre campate. Fu iniziato nel 1903 e finito nel 1907, in sostituzione di un vecchio ponte sospeso intitolato a Maria Teresa e costruito, nel 1840, interamente in ferro e cavi d'acciaio. Inaugurato nel 1907, il nuovo ponte, alla presenza del re Vittorio Emanuele III, ebbe subito aspre critiche per la linearità e semplicità del progetto che non rendevano merito alla prima capitale d'Italia né tanto meno al "Re Buono" come veniva chiamato re Umberto I.
Vennero allora realizzate le quattro statue bronzee allegoriche poste su un basamento di granito ad ognuna delle quattro testate del ponte. Furono aggiunte nel 1911 e raffigurano l'Arte ("La maestà nell'arte e nella scienza"), l'Industria ("La maestà protegge l'agricoltura e l'industria"), la Pietà ("Sul campo del dolore") e il Valore ("Sul campo di battaglia"). Le statue portano la firma di Giovanni Reduzzi (Arte e Industria) e Luigi Contratti (Pietà e Valore). Anche le statue vennero inaugurate il 20 settembre 1911 alla presenza del re Vittorio Emanuele III durante l'esposizione Universale del 1911.
Raggiungo così piazza Crimea, un confine invisibile fra la città e la collina, la piccola e discreta piazza con al centro il monumento ai caduti nella guerra di Crimea. L'opera di Luigi Belli è posta ai piedi della collina e venne inaugurata il 1° giugno 1892; il monumento, con al centro un obelisco posto su un cubo bronzeo ornato di palmizi orientaleggianti, riassume l'impresa militare a cui il piccolo Stato del Piemonte prese parte insieme alle altre nazioni alleate, ricordate dagli stemmi impressi nel blocco monumentale, insieme ai bassorilievi raffiguranti l'assedio di Sebastopoli e la battaglia della Cernaia. Celebra così la spedizione del corpo militare che tra il 1855 e il 1856, sotto il comando del generale Alfonso Lamarmora, prese parte alla guerra di Crimea contro l'impero russo a fianco di Francia, Inghilterra e Turchia. Il monumento presenta davanti all'obelisco la statua di un Piemonte con le fattezze di una donna guerriera, accompagnata da un marinaio e da un bersagliere con tromba.
Il generale Alfonso Lamarmora, a capo del corpo di spedizione di 18.000 soldati, partì il 14 aprile 1855. Alla fine dell'impresa, conclusa nel giugno 1856, il Piemonte pianse 2.300 uomini che non fecero ritorno in patria, caduti in battaglia e per il colera.
Il monumento fu inaugurato la sera del primo giugno del 1892 alla presenza del re Umberto I.
La piazza si prospetta elegante, con palazzine di fine Ottocento alternate ad orride costruzioni dell'ultimo trentennio.
Sul civico n° 7 una lapide, posta nel 1986 dalla "Juventus F.C." in quella che per anni fu la sede ufficiale di una delle due principali squadre di calcio torinese, ricorda coloro che il 24 maggio 1985 avevano trovato la morte nello stadio Heysel di Bruxelles, per la follia degli hooligans del Liverpool durante la finale della Coppa Campioni.
Proprio nelle vie qui intorno, sono stati girati alcuni dei più grandi film italiani degli anni settanta del XX secolo, come Libero Burro di Sergio Castellitto, del 1999, che narra di un uomo, Libero Burro, di origine meridionale, che ha deciso di intraprendere la carriera di imprenditore edile a Torino. Vuole lanciarsi nell'azzardo speculativo accaparrandosi "La Cavallerizza", uno stabile in pieno centro di proprietà di un suo amico perdigiorno nullatenente e sfaccendato. La trama del film vede Libero, che non ha il titolo di studio necessario per fare il professionista immobiliare, e che per ottenerlo deve iscriversi alle scuole serali, frequentate da extracomunitari. In questa occasione conosce Caterina, professoressa d'italiano, di cui si innamora, riuscito ad entrare nel mondo della speculazione ma con esiti nefasti dovrà alla fine accontentarsi dell'amore conquistato. Il film prende spunto dal romanzo di Bruno Gambarotta: "Torino, Lungodora Napoli" scritto come giallo con spunti di commedia, con tema principale l'integrazione dei meridionali nella capitale sabauda, e proprio come nel romanzo ripercorre parte della commedia ma con uno spiccato humour nero. Castellitto racconta con le immagini una Torino divisa tra i quartieri popolari, il mercato di Porta Palazzo, lo stadio delle Alpi e i quartieri alti, appunto la collina, ed in particolare corso Lanza angolo via Crimea, oltre ovviamente La Cavallerizza e altri spaccati della città.
Intorno a piazza Crimea, sono state effettuate riprese per il film Profondo Rosso di Dario Argento, del 1975, con scene girate a villa Scott, un villino liberty posto nella vicina via Lanza al civico 57. All'epoca delle riprese il villino era occupato da un collegio gestito dalle suore della Redenzione che furono mandate per un mese in vacanza a Rimini a spese della produzione. È infatti la lugubre villa del bambino urlante, dove Marc (David Hemmings) rinviene il cadavere e trova il disegno dell'assassinio sotto l'intonaco. Nella finzione del film la villa non è situata a Torino, bensì nella campagna romana. Del film voglio solo ricordare che l'aiuto regista era Stefano Rolla, tragicamente perito durante l'attentato di Nassiriya.
La villa Scott, bellissimo esempio di Liberty, fu costruita nel 1902 su progetto dell'ingegnere torinese Pietro Fenoglio con la collaborazione dell'Arch. Gottardo Gussoni, su commissione di Alfonso Scott, che era l'amministratore delegato della Rapid, una nascente industria automobilistica oggi scomparsa. Alla morte del proprietario la villa entrò nelle disponibilità dell'ordine delle Suore della Redenzione, che adibirono la struttura a collegio femminile, noto con il nome di Villa Fatima. La villa fu acquistata dopo il 2000 da privati che la restaurarono, restituendola allo splendore originario.
Lentamente mi arrampico sulla stretta strada asfaltata che mi conduce sul vero balcone di Torino, da dove nelle belle giornate limpide e di sole, si può ammirare l'imbocco delle vallate piemontesi e la festante corona delle bianche Alpi. Ma oltre l'arco alpino svela anche la sua bellezza lo scenario collinare di Superga soprattutto nelle giornate rese terse dal vento.
Un tempo, fino all'inizio della seconda guerra mondiale, una piccola e caratteristica funicolare costruita per l'Esposizione Universale del 1884, collegava il piazzale sottostante, posto lungo corso Moncalieri, con la piazzetta antistante la chiesa di Santa Maria del Monte, sul monte dei Cappuccini, una collina di solo 283 m s.l.m. che sorge sulla riva destra del Po, nel quartiere Borgo Po. Sulla piazzetta si affacciano inoltre un convento, il Museo Nazionale della Montagna e una statua in bronzo della Madonna che pone il suo sguardo vigile e tutelare sulla città. Di particolare interesse è un tratto di cancellata in ferro che cinge la statua proveniente dalla grotta di Lourdes e che fu donato ad un pellegrinaggio di lavoratori torinesi nel 1958. Il belvedere è posto di fianco al museo della Montagna e sopra la sede storica del C.A.I, e da qui si può ammirare lo splendido panorama della città. Nelle giornate limpide si possono individuare i singoli palazzi, il castello, la torre littoria e la grandiosità della mole, ed in lontananza i mostruosi grattacieli che ultimamente sono stati edificati in città.
La Storia della chiesa e del piccolo convento di Santa Maria al Monte, affidati ai frati cappuccini, luogo di grande importanza per la spiritualità torinese è intriso i storia e di magia e mistero.
La sua storia inizia nel 1581 quando il Duca Carlo Emanuele I acquistava la Bastia, l'antica fortezza di forma quadra dell'XI secolo, costruita a protezione del sottostante ponte di legno sul Po, in corrispondenza di una rocca difensiva, posta all'altro capo del fiume, in quella zona oggi denominata via della Rocca, a memoria dell'antica costruzione. Il Duca acquista la Bastia dalla famiglia Scaravelli e la concede ai frati Francescani Cappuccini per farvi erigere una chiesa dedicata a S. Maurizio, quasi fosse un suo ex voto; così scrive il Cibrario: "Quel Duca teneva, e con ragione, in molta stima l'ordine de' Capuccini, e in gran numero sono i conventi di que' religiosi da lui fondati, o soccorsi in tutto il Piemonte. Anche nel Convento del Monte desiderò d'averli; ed essi vi fecero il loro solenne ingresso nel 1590. Nel 1596 il duca diè ai Cappuccini del Monte 665 volumi stati del fu vescovo di Asti Panigarola, di chiara memoria, con altri assai della propria biblioteca, con legge che non potessero essere estratti dal convento né trasferiti altrove. La chiesa non poté venir ufficiata prima del 1611, e solo nel 1638, regnando Vittorio Amedeo I, si terminò di adornarla di marmi, di stucchi ed altri fregi, che la rendono cospicua sopra tutte le altre chiese dell'Istituto cappuccinesco, le quali d'ordinario non rilucono se non per nettezza, e per una venusta sebben povera felicità". I lavori incominciarono quasi subito ma vennero anche presto sospesi per poi essere ripresi nel 1610 sotto la direzione dell'architetto Ascanio Vitozzi, cambiando anche il nome della erigenda chiesa in S. Maria del Monte. I lavori continuarono in maniera discontinua dopo la morte del Vitozzi anche se posti sotto la direzione di Carlo di Castellamonte, concludendosi con la consacrazione della chiesa che avvenne nel 1656. Alla consacrazione partecipò la regina Cristina di Svezia, in esilio dal suo paese per la sua professione di fede cattolica.
La chiesa ha una costruzione semplice su base quadrata e tamburo ottagonale; l'interno è finemente e riccamente decorato con un bellissimo altare. Molte opere scultoree sono di Carlo di Castellamonte, di Benedetto Alfieri mentre i dipinti sono di Guglielmo Caccia detto Moncalvo e di altri importanti pittori, inoltre vi sono alcune statue lignee di Stefano Clemente.
La pavimentazione della chiesa è in povera pietra di Barge, la parte absidale ha un bel coro con stalli settecenteschi. Le due cappelle laterali ospitano un bell'arredo marmoreo, in una, a destra, campeggia una copia della tela raffigurante la Madonna che porge il bambino Gesù a san Francesco alla presenza di San Lorenzo diacono e di altri frati (l'originale è conservato nella galleria sabauda), mentre su quella di sinistra una tela raffigura il martirio di san Maurizio. Sotto quest'ultima tela, posto sotto l'altare della cappella, riposano le spoglie di sant'Ignazio da Santhià, mentre sotto l'altare di san Francesco riposano le spoglie del piccolo martire romano s. Botonto, provenienti dalla chiesa di s. Agnese in Roma, dono di papa Gregorio XVI.
La storia dei frati e del convento è indissolubilmente legata al ricordo delle pestilenze. I frati scrissero vere pagine di eroismo nelle ricorrenti epidemie, tra le quali è celebre quella del 1630 che decimò la popolazione di Torino per il diffuso contagio. Ma il convento è ricordato anche per le pagine tragiche della storia del suo l'assedio, avvenuto nel 1640, quando oltre 400 persone ivi rifugiatesi, in gran parte inermi, furono trucidate dalle truppe francesi. Si racconta che nelle nottate fredde, il fischiare del vento pare ricordare le voci degli inermi violati e massacrati in un luogo benedetto. Ma per i Torinesi la chiesa dei Cappuccini, come viene comunemente chiamata, è sopratutto ricordata per il prodigio eucaristico.
Una leggenda infatti narra che durante il doppio assedio di Torino, nel 1640, il Monte venisse subito identificato come luogo di fondamentale importanza strategica e che i francesi cercassero di conquistarlo. Il principe Tommaso Francesco di Savoia ordinò al conte d'Harcourt di espugnare il colle e il monastero, il che avvenne senza particolari difficoltà ma, una volta entrati nella chiesa per saccheggiarla, come raccontano i fedeli, una lingua di fuoco si levò dal tabernacolo che stava per essere profanato per rubare la pisside d'oro che conteneva le ostie consacrate, abbattendo al suolo il soldato. Afferma padre Pier Maria da Cambiano:
«Una lingua di fuoco uscita dal Santo Ciborio andò a cogliere in pieno petto l'audace e sacrilego francese da bruciargli gl'abiti e la faccia. Di che spaventato gittandosi a terra gridava "Mon Dieu! Mon Dieu!". Tosto la chiesa fu empita di denso fumo e fra il comune stupore cessò il vandalismo»
I francesi meravigliati e spaventati desistettero dalla spoliazione della chiesa, dandosi alla fuga. Questo episodio mistico, è illustrato da una tela di ingenua fattura esposta nell'atrio della chiesa. Sono ancora visibili attualmente i colpi del pugnale e le tracce del presunto fuoco sul tabernacolo.
Due fortunosi e fortunati ritrovamenti durante impegnativi restauri della chiesa hanno portato alla luce una porta murata che dava accesso ad un piccolo vano. Qui in una fossa sotto il pavimento si rinveniva una cassa di legno contenente uno scheletro. Dovrebbe essere il corpo di Padre Cherubino Fournier da Maurienne, morto nel 1609; costui era amico fraterno di San Francesco di Sales, consigliere fidato del Duca Carlo Emanuele I, ispiratore di Papa Paolo V per la istituzione della Sacra Congregazione di Propaganda Fide. Di questo Cappuccino si perdono le tracce della sepoltura nel 1630, così la causa di beatificazione, in assenza del corpo, rimase sospesa sine die ed oggi, tornato alla luce, potrà forse essere portato all'onore degli altari.
L'altro ritrovamento e quello delle spoglie di Filippo d'Agliè, dopo 322 anni dalla sua morte (1667-1989). Durante lo scavo di una fossa nel giardino del Convento che anticamente fungeva da orto, venne alla luce uno scheletro perfettamente conservato. Il ritrovamento di alcuni chiodi attorno al corpo fanno supporre l'esistenza di una cassa ormai scomparsa. Il ritrovamento di due oggetti ritrovati con lo scheletro, cioè due fornelli di pipa seicenteschi in ceramica bianca, uno di semplice fattura, l'altro molto più prezioso, fece supporre che fosse un famoso personaggio del XVII secolo, assiduo frequentatore del Convento dei Cappuccini, tanto da voler essere sepolto nel convento. Si dovrebbe trattare di Filippo Giuseppe San Martino d'Agliè di San Germano, più noto col semplice titolo di Conte d'Agliè, che per testamento chiese ed ottenne di essere sepolto "nel più abbietto et vile sito del convento" e così fu umilmente sepolto nell'orto.
Costui era nato nel 1604 a Torino ed è ricordato non tanto per i suoi altissimi incarichi, tra i quali Maresciallo di Campo in Francia, Capitano delle Corazze della Guardia di S.A., Ministro di Stato, Soprintendente generale delle Finanze, Maresciallo generale dell'Armata, ecc. ma sopratutto per una dolce storia d'amore nata tra lui e la vedova del Duca Vittorio Amedeo I, la Duchessa Cristina di Francia, prima Madama Reale.
Il Conte era altresì famoso per le sue doti artistiche di buon musicista, geniale coreografo, che scrisse e diresse innumerevoli balletti per la Corte di Torino, il più famoso dei quali risale al 1650 ed è intitolato Il Tabacco.
Ma si destreggiò abilmente tra le beghe sorte tra i Madamisti e i Principisti, durante la travagliata reggenza di Madama Reale tra il 1637 e il 1648 per il piccolo duca Carlo Emanuele II, sapendo tenere testa allo stesso Cardinale Richelieu che per due anni lo tenne prigioniero nel castello di Vincennes in Francia.
Il fantasma del conte, secondo molti occultisti, non si sarebbe mai allontanato dal Monte, ed ancora oggi qualcuno dice di averlo visto nella penombra della chiesa intento a pregare, inginocchiato davanti all'altare.
Ma il fantasma del conte non è l'unico che si aggira sul Monte, infatti si narra delle apparizioni delle "due sante" che si aggirano tra il Monte dei Cappuccini e il lungo Po. Si tratterebbe di Maria e Caterina, due delle quattro figlie di Carlo Emanuele, che il popolino considerava "sante". Nel 1629 avevano donato alla Madonna del Monte due corone, adorne di gemme, l'una per la Vergine l'altra per il bambino Gesù. Le due fanciulle si flagellavano spesso, mortificando le proprie carni, non partecipavano quasi mai ai ricevimenti e rare erano le pubbliche apparizioni, presero in seguito l'abito del terzo ordine francescano. Caterina, dopo una visita al santuario di Biella, accusò febbre alta e spirò in pochi giorni a quarantasei anni. La folla, convinta della santità di Caterina le ridusse in pezzi l'abito per farne reliquie, non appena fu diffusa la notizia della sua morte. La sorella Maria invece morì a Roma e le sue spoglie furono traslate ad Assisi. Chi ha incontrato il fantasma di Caterina sulla strada che sale al Convento, racconta come questa fosse vestita con un abito celeste, come la Vergine, con lo sguardo rivolto verso terra in segno di penitenza e devozione, mentre la sorella Maria pare fosse abbigliata con un abito rosso.
A differenza dell'assedio del 1640 il Monte dei Cappuccini non venne espugnato dai francesi durante il più famoso assedio di Torino del 1706, in quanto il duca Louis d'Aubusson de la Feuillade non ritenne necessario piazzare dei cannoni sul Monte, per concentrare il fuoco sulla cittadella, cosa che invece avvenne nel 1799, quando Il monte venne scelto dalle truppe austro-russe quale postazione per le artiglierie che avrebbero dovuto bombardare Torino se i francesi, che occupavano la città, avessero offerto resistenza. Fortunatamente l'assedio durò poche ore, ma sono ancora evidenti i segni delle cannonate francesi su una parete del convento.
Durante il periodo napoleonico, con la soppressione degli ordini monastici, il convento fu temporaneamente destinato ad altri usi. Subì invece gravi danni a seguito dei bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale.
Il convento e la chiesa sono anche conosciuti per la presenza e testimonianza di alcuni frati noti per la santità, come padre Ignazio da Santhià nel secolo XVIII e il cardinale Guglielmo Massaia. Sant'Ignazio da Santhià, al secolo Lorenzo Maurizio Belvisotti, fu proclamato santo da papa Giovanni Paolo II nel 2002 e terminò la sua vita a Santa Maria del Monte il 22 settembre 1770, dopo essere diventato una figura amata da molti in Torino per i suoi servizi verso i poveri e per la sua carità.
Invece il frate cappuccino divenuto cardinale Guglielmo Massaia, al secolo Lorenzo Antonio Massaia (Piovà, 1809 – San Giorgio a Cremano, 1889), dapprima cappellano dell'Ospizio Mauriziano, insegnò filosofia e teologia nel convento di Moncalieri-Testona e fu scelto da re Carlo Alberto in qualità di padre spirituale dei due figli, Ferdinando e Vittorio Emanuele. Nel 1845 si trasferì al Monte dei Cappuccini e divenne anche guida spirituale del patriota Silvio Pellico, da poco liberato dalle catene dello Spielberg. Successivamente decise di andare missionario in Etiopia dove vi trascorse 35 anni, divenendo vicario apostolico di papa Gregorio XVI. Fondò diverse missioni e centri assistenziali, compose il primo testo di catechismo in lingua galla. Si adoperò a favore delle popolazioni indigene contro il vaiolo, venendo soprannominato "Padre del Fantatà" (Signore del vaiolo).
Vi sono state, inoltre, altre figure della chiesa torinese legate al convento di Santa Maria al Monte quali Angelico da None (venerabile), che a soli 33 anni è stato eletto Ministro provinciale dei cappuccini del Piemonte. Terminato il mandato da Ministro, parte missionario per l'Eritrea nel febbraio del 1914 e poi in Etiopia. In seguito all'invasione inglese dell'Etiopia, nel 1942 viene deportato con i confratelli in un campo di prigionia ad Harrar. Morirà a Bra nel 1953.
Ancora ricordo Padre Cherubino Fournier De La Maurienne, prefetto apostolico del Chiablese, amico e collaboratore di san Francesco di Sales, che muore nel convento al Monte dei Cappuccini, durante il viaggio di ritorno da Roma nel 1609 ed ivi sepolto.
Sul piazzale della chiesa trovo Igor Karkaroff, un ambiguo personaggio, con il quale per anni mi sono fronteggiato in diverse competizioni. Nella saga della J.K. Rowling era il preside dell'Istituto di magia della scuola di Durmstrang e viene descritto come una persona molto fredda e dura, untuosa e priva di coraggio, proprio come l'Igor Karkaroff della mia saga torinese che, come lui,non fa altro che gettare discredito su coloro che crede antagonisti, e a Torino il sottoscritto era il suo obiettivo principale. Benché nella nostra competizione spesse volte il sottoscritto abbia avuto la meglio, trovando ripetutamente soluzioni a condizioni spesso disastrose create per la negligenza di Karkaroff, ho sempre dovuto guardarmi alle spalle sia da lui che dai suoi affezionati mangiamorte.
Non ha per nulla l'aspetto del Karkaroff della Rowling, è magro, non esageratamente alto, stempiato con due lunghe e grandi orecchie, fortunatamente non a sventola, in tal caso sarebbe veramente ridicolo, un naso piccolo e alla francese divide due sottili occhi scuri, coronate da spesse sopracciglia nere brizzolate, a cornice dei piccoli occhi e delle ampie rughe a zampa di gallina che ne completano la cornice. Le sue labbra sono sottili con una bocca lunga e grande che se non fosse per le sottili labbra potrebbe apparire uguale a Joker il noto personaggio dei fumetti dalla DC Comics, celebre nemico di Batman. Il Karkaroff torinese, che poi torinese non è, ha molte cose in comune con Joker, è sadico ma anche grottesco e schizoide, e se Joker nel film "Batman" di Tim Burton dice «Io ho dato un nome al mio dolore e il nome è Batman»,nella Hogwarts torinese Igor Karkaroff potrebbe tranquillamente affermare di aver dato un nome alla sua angoscia e cioè il mio.
Mi vede e mi viene incontro, sempre con il suo sorriso ironico e falso, brevi convenevoli di puro opportunismo, legati più volte agli stati di salute di entrambi, visto anche un suo recente intervento chirurgico, e rapidamente si allontana.
Non mi meraviglio di trovarlo davanti a questa chiesa, benché sia un fedele seguace di Lord Voldemort, lo ha rinnegato per mero opportunismo come ha tradito i suoi ex compagni per accentrare potere ed incarichi proprio come nella saga della Rowling Igor Karkaroff ha tradito Voldemort per sottrarsi ai dissennatori di Azkaban.
Karkaroff torinese è un personaggio in gran parte opaco, perennemente in cerca di prestigio, per lo più acquisito grazie a comportamenti poco trasparenti e che, per paura di essere scoperto per le sue malefatte, è spesso pronto rinnegare chiunque, ma sono certo che prima o poi come tutti i mangiamorte traditori sarà vittima di se stesso.
Anch'io decido di scendere dal Monte dei Cappuccini per proseguire nel mio viaggio che si annuncia ancora lungo e difficoltoso.



Fine XXVI parte.