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Chiaroscuri nella città eterna (XV parte)

Mercoledì 11 Novembre 2015 20:55
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RomaLa fontana dell'obelisco Lateranense si trova addossata al lato settentrionale dell'obelisco. Nei primissimi anni del XVII secolo, sotto il pontificato di papa Clemente VIII, vennero iniziati i lavori per la costruzione di una piccola fontana nell'area del Laterano, la prima di quella popolosa zona della città, posta a contatto con l'imponente obelisco, che solo pochi anni prima, per volontà di papa Sisto V era stato eretto.
La fontana fu realizzata a spese del Capitolo dei Canonici di san Giovanni, ma per quanto di dimensioni relativamente ridotte, fu conclusa solo nel 1607. Il motivo di tanto ritardo è sostanzialmente dovuto nella volontà dei tre papi che si succedettero di lasciare nel monumento un segno del loro potere, anche attraverso gli stemmi della propria famiglia. Anche la fontana ha qualcosa di misterioso, infatti due sono le versioni accreditate. La prima vuole che nella sua versione primitiva, la fontana dovesse essere composta da due vasche semicircolari sovrapposte, di cui la superiore più piccola, a forma di valva di conchiglia, ed essere affiancata da due delfini. Arricchita da varie decorazioni, tra cui un'aquila centrale e sopra l'aquila, una stella a otto punte simbolo araldico degli Aldobrandini, ossia la famiglia di papa Clemente VIII.
Successivamente pare che nel 1605 la fontana venne sormontata da una statua bronzea di san Giovanni, affiancato dai gigli araldici di papa Leone XI, cioè della famiglia dei Medici. Il suo pontificato fu molto breve e il successivo pontefice, Paolo V volle che i simboli araldici della sua famiglia (Borghese), venissero apposti sul monumento, e sul prospetto apparvero, ai lati della conchiglia, i rilievi di un'altra aquila e un drago, a fare da contorno ad un quadro contenente la simbologia papale della tiara e le chiavi pontificie.
Invece solo nel XVIII secolo la fontana assunse il suo aspetto attuale, con la rimozione della statua e dei gigli fatti sistemare da Leone XI. Non si conosce la reale motivazione della loro rimozione, se dovuta al cattivo stato di conservazione o a motivazioni politiche per eliminare il ricordo della famiglia Medici.
L'altra versione vuole che l'origine della fontana sia fatta risalire al periodo 1588-1590, in contemporanea all'erezione dell'obelisco o subito dopo, da parte di Domenico Fontana, che la progettò. Si racconta che fin dall'inizio la fontana fosse ornata con la statua di san Giovanni e dai due delfini che gettavano acqua nella vasca superiore ad opera dello scultore Taddeo Landini, elementi andati poi perduti nel rifacimento di papa Paolo V.
Intorno all'obelisco si affaccia il palazzo Apostolico al Laterano che ho costeggiato, e la Pontificia Università Lateranense, una prestigiosa università di Diritto Pontificio e Civile. Questa università ha sedi in circa quaranta paesi del mondo, rilascia titoli riconosciuti e validi a livello internazionale. Nel lasciare la piazza del Laterano, uno sguardo fuggevole al Battistero lateranense, dedicato a san Giovanni in Fonte al Laterano.
Chiamato anche Battistero Costantiniano è stato costruito con materiali di risulta di antichi edifici. Fu modello e archetipo dei battisteri edificati per tutto il medioevo. Sarebbe interessante fare una visita, in quanto racchiude misteri e segreti ancora non svelati. Unisce il battistero all'obelisco una iscrizione apposta alla base dell'obelisco stessa. Questa iscrizione deriva da una leggenda della seconda metà del secolo V in cui di da notizia del battesimo dell'imperatore Costantino nel Battistero Costantiniano.
Infatti sul lato principale verso nord dell'obelisco si può leggere: Constantinus - per crucem - victor - a s. Silvestro hic - baptizatus - crucis gloriam - propagavit. Ovvero: Costantino, vincitore per intercessione della Croce, qui battezzato da S. Silvestro, diffuse la gloria della Croce. Invece Eusebio di Cesarea, lo storico della Chiesa, racconta che Costantino fu battezzato in punto di morte presso Nicomedia (oggi Ismid).
La mia passeggiata ora mi porta verso Villa Celimontana, prima di entravi, dopo una lunga passeggiata in salita e meritarmi così un breve riposo ristoratore nel parco della villa, non posso non soffermarmi ad osservare sia la chiesa di santa Maria in Domnica che la Navicella.
Santa Maria in Domnica, anche nota come Santa Maria alla navicella, è una delle tante basiliche di Roma e sorge sulla sommità del colle Celio, nell'attuale piazza della Navicella. L'attributo "in Domnica" è anch'esso oggetto di differenti interpretazioni. Una lo fa derivare semplicemente da dominicum, "del Signore". Un'altra lo vuole come riferimento a Ciriaca, una donna che sarebbe abitata nei pressi della chiesa, ed il cui nome avrebbe significato "appartenente al Signore".
Invece l'attributo "alla navicella" fa riferimento alla scultura di una nave romana posta nella piazzetta di fronte alla chiesa. Dapprima era solo una scultura di abbellimento e poi trasformata in una fontana da papa Leone X nel 1931. Non è strano trovare in cima al colle del Celio una nave, infatti proprio nei pressi di questo colle, sorgeva il Castra misenatium, ovvero la caserma del reparto di marinai della flotta di stanza a capo Miseno, il cui incarico, era quello di manovrare il velarium, cioè l'enorme tenda che copriva il Colosseo e che, manovrato da un sistema di funi e carrucole, serviva a proteggere il pubblico dal sole e dalle intemperie durante lo svolgimento degli spettacoli.
La tradizione vuole che i marinai del castra avrebbero fatto realizzare un modello marmoreo di una barca, per offrirlo alla dea Iside, protettrice dei naviganti, ora lo definiremmo una sorta di ex voto. Un'altra versione della leggenda vuole la riproduzione marmorea della nave, sempre come un ex voto, ma offerto dai soldati del Castra peregrina (alloggi riservati ai militari di passaggio a Roma) per ringraziare sempre la dea Iside per uno scampato naufragio. I resti del modello furono ritrovati all'inizio del XVI secolo nei pressi della basilica e prima che andassero di nuovo persi, questa volta definitivamente, papa Leone X incaricò lo scultore Andrea Sansovino di farne una copia che fu poi collocata intorno al 1520 davanti all'entrata della chiesa, ornata con le insegne papali ed un'epigrafe celebrativa.
Entro nell'area della villa, e a sinistra dell'attuale ingresso vi era la caserma della V coorte dei Vigili, che per molti non vorrebbe dire nulla, ma per il sottoscritto e mia deformazione professionale non posso che ricordarli come i primi pompieri. Infatti l'Imperatore Cesare Ottaviano Augusto (33 a.C. 17 d.C.) organizzò una vera e propria militia vigilum, un importante istituzioni presenti nell'Urbe per combattere gli incendi ma anche per prevenirli.
La militia vigilum, posta sotto il comando di un preafectus vigilum era composta da 7 coorti di 1.000 vigili suddivisi in 10 centurie. I vigili erano acquartierati in stazioni e la caserma della Quinta Coorte, risulta essere ubicata sul colle Celio, all'interno di Villa Celimontana, come hanno dimostrato gli scavi ottocenteschi.
La villa Celimontana, già villa Mattei è un grande e bel parco pubblico, la cui realizzazione risale al cinquecento, trasformata con i nuovi canoni paesaggistici nel 1858 dall'architetto francese Pierre Charles L'Enfant per volontà di Laura Maria Giuseppa di Bauffremont sua proprietaria. Un ulteriore intervento in stile neogotico, si ha con l'ultimo proprietario Richard von Hoffmann nel 1870.
La villa copre un sito archeologico, del quale restano cinte murarie ora per lo più ricoperte, risalenti al periodo Flavia (dinastia Flavii Vespasiani che detenne il potere dal 69 al 96 e Traianea (regnante dal 98 al 117). Sempre gli scavi archeologici ottocenteschi hanno portato alla luce nel 1889 la Basilica Hilariana, eretta alla metà del II secolo per volontà di Manius Publicius Hilarus, margaritarius (commerciante di perle). Costui era quinquennalis perpetuus del collegio dei dendrofori (collegium dendrophorum), ossia il collegio che riuniva i dendrofori, artigiani addetti alla lavorazione del legno e dei metalli. I dendrofori, insieme a ai fabbri e ai centonari (addetti alla raccolta di abiti usati e alla loro lavorazione) svolgevano anche la funzione di pubblica utilità in quanto erano addetti allo spegnimento incendi. Il collegio era collegato al culto della Magna Mater (Madre Terra).
Mi avvio tra i viali alberati della villa Celimontana, ben conservati, ricchi di vegetazione autoctona ma come si addice ad un luogo costellato di numerosi reperti di varie epoche ed origini,anche di piante e fiori alloctoni.
Gruppi di giovani ragazzi sono seduti con le gambe incrociate a chiacchierare, mentre alcuni sono sdraiati sotto gli enormi pini marittimi, altri, muniti di cuffie ascoltano musica e leggono libri.
Tra i reperti presenti c'è proprio l'obelisco egizio di Ramsete II, popolarmente detto "spiedino", proveniente dalla spoliazione del Tempio del Sole a Eliopoli. Originariamente sistemato nel Santuario di Iside Capitolina (Tempio di Iside) sul Campidoglio e fu spostato in questo parco tra il 1817 e il 1820, quando già giaceva in terra presso l'Aracoeli. Fu donato dal Senato Romano al duca Ciriaco Mattei nel 1582 che lo sistemo nei giardini della sua villa, dove si trova attualmente. È costituito da due monoliti di cui solo la parte superiore è originale. Questa è sormontata da una sfera in bronzo, decorato con geroglifici relativi al faraone Ramsete II (1290-1233 a.C.), l'inferiore è privo di iscrizioni e sicuramente è di epoca più recente. La parte originale è alta 2,68 metri, ma con il completamento, il basamento e il globo raggiunge i 12,23 metri.
L'obelisco si accompagna a macabre vicende e segreti, come quello terribile che racconta una sinistra leggenda: si vuole che nel 1820, Don Manuel Godoy, allora proprietario della prestigiosa residenza volle restaurare e spostare l'obelisco in altro luogo ma sempre all'interno del parco. In occasione dello spostamento dell'obelisco, Don Manuel diede una grande ricevimento a cui invitò i personaggi più in vista della Roma ottocentesca, fu proprio durante quei momenti di festa e spensieratezza che si consumò la tragedia.
Durante i lavori di spostamento, ad un operaio che vi lavorava, mentre era intento a pulire il basamento dell'obelisco, furono tranciate di metto le mani, a causa di una fune che si ruppe, facendo cadere il pesante masso cadde sulle sue mani. Si dice che tuttora le sue mani giacciono sotto il basamento medesimo. Da allora, nessuna osò proporre ulteriori spostamenti.
La leggenda vuole che allo sfortunato operaio, apprezzato in città per la sua allegria, fosse poi stato assunto Don Manuel, conferendogli anche un lauto vitalizio. Un'altra leggenda vuole che nella sfera alla sua sommità fosse servita per contenere le ceneri di Augusto (Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto).
Don Manuel Godoy ovvero Manuel Francisco Domingo Godoy Álvarez de Faria Ríos Sánchez Zarzosa, era conosciuto semplicemente come Don Manuel, il principe della Pace, titolo conferitogli a seguito dei successi diplomatici ottenuti durante le guerre rivoluzionarie francesi, fu anche primo ministro in Spagna, ma giunse a Roma in esilio e fini la sua esistenza a Parigi.
Invece la storia della villa o palazzetto Mattei, oggi proprietà del Comune di Roma, assegnata quale sede alla Società Geografica Italiana, comincia nel 1552/53, quando i terreni condotti come vigna dalla famiglia Paluzzelli, fu acquistata per 1000 scudi d'oro dalla famiglia Mattei, che la sottopose ad interventi di sistemazione portatisi a compimento solo nel 1581.
Ma già nel nel 1552 in occasione del pellegrinaggio alle sette chiese, per la prima volta, la villa fu aperta al pubblico. Il pellegrinaggio, voluto dal vescovo san Filippo Neri nel XVI secolo, consisteva nel recarsi in visita alle sette chiese principali di Roma (san Pietro, san Paolo, san Giovanni, santa Maria Maggiore, san Lorenzo, san Sebastiano e santa Croce in Gerusalemme). A metà strada, durante il pellegrinaggio, i fedeli entravano a Villa Mattei, messa a loro disposizione per riposarsi. Durante la sosta, la tradizione voleva che, dopo la benedizione, un bambino recitasse un sermone, accompagnato da musici e canti. La manifestazione del pellegrinaggio alle sette chiese permase fino al 1800.
La famiglia Mattei lascio la proprietà della villa nel 1802, che ebbe diversi proprietari tra cui il Principe Manuel Godoy che, nei diciassette anni di gestione eseguì molti lavori nel giardino, trasformandolo in un parco all'inglese. Godoy ne fu proprietario fino al 1830, quando fu obbligato per i forti debiti contratti a cederla. I creditori rilevata la proprietà la vendettero alla Principessa olandese Marianna d'Orange Nassau, figlia minore di Guglielmo I, che curò con molta premura il giardino, fino a quando si ritirò nel suo castello sul Reno, portando con sé la collezione d'arte contenuta nella Villa, ivi compresa la raccolta di quadri di Don Manuel.
Nel 1857 la Villa fu quindi acquistata dalla Principessa Laura di Bauffeemont. Nel 1869, la Villa divenne proprietà di Riccardo Hoffmann, barone di Baviera. In cui vi visse assieme alla moglie americana e al figlio Luigi Ferdinando. A quest'ultimo fu espropriata al termine della prima guerra mondiale come proprietà del nemico su suolo patrio, divenendone proprietà comunale nel 1826.
Nei miei, non più frequenti viaggi a Roma, ho sempre trovato riposo e piacere, nel camminare tra i vialetti del giardino della villa. Viali costeggiati da bordature di bosso e di alloro, ammirare l'albero di giuda, (cercis siliquastrum), ma anche alberi di canfora, acanto, pino d'Aleppo, sequoie e di avocado. Non di rado ho potuto ascoltare il verso e guardare il frullo dei gruppi di parrocchetti che vi abitano. Svolazzano pigramente e chiassosamente tra le magnolie, cedri del libano, palme, aranci amari, mandaranci e pompelmi. Come modelli vanitosi e narcisi si fanno fotografare posati sul bordo delle fontane, mentre in vasche poste all'ombra di oleandri e viburni, pesci rossi e carpe broccate (carpa koi) di origine giapponese, sguazzano silenziosi.
Questi bellissimi parrocchetti, con il loro piumaggio colorato ed inconfondibili, con quel verso decisamente stridulo, che li contraddistingue, pare abbiano ritrovato su questo colle, l'habitat naturale per riprodursi. La loro presenza in libertà a Roma risale agli anni 90, dovute purtroppo ai soliti abbandoni di chi si innamora dell'animale esotico e poi si stanca di prendersene cura e lo abbandona. Appartengono a due diverse specie: il parrocchetto dal collare e il parrocchetto monaco. Il primo viene dal Sud America, il secondo dall'Asia. Abitudini, clima e mangime sicuramente diversi, ma a Roma si sta bene e loro si sono adattati senza troppi problemi, complice anche le temperature decisamente mite.
Contendono il cibo ai passerotti, e cercano di tenere testa a piccioni, cornacchie e gabbiani, con successi alterni. Non è difficile vederli contenderli con gli scoiattoli le cavità negli alberi.
Bisogna lasciare rapidamente il giardino e invece di fare due passi fino all'esquilino, mi converrà prendere nuovamente la metropolitana. Intanto ci sarà un'altra occasione di visita per raccontare cosa c'è intorno a questa villa.



Fine XV parte.