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Luci ed ombre a Torino (XLVII parte)

Mercoledì 01 Giugno 2016 10:42
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Ron Weasley e Hermione GrangerVicino a via Franco Bonelli, ed esattamente in via Sant'Agostino vi è l'omonima chiesa. Essa è stata costruita tra il 1551 e il 1582, consacrata nel 1643. Tra la metà del XVIII e XIX secolo è internamente rimaneggiata da Carlo Ceppi. Essa sorge sul luogo dell'antica chiesa dedicata ai santi Giacomo e Filippo risalente al IX secolo. La facciata è maestosa, e benché collocata in una via stretta viene comunque evidenziato il suo stile architettonico manierista. Scandita da paraste corinzie, l'accesso al grande portone è preceduto da una bella scalinata. L'interno a tre navate conserva stupende tele del settecento ed alcune sepolture, tra le quali spicca il cenotafio realizzato da Ludovico Vanello nel 1578 per il viaggiatore e collezionista d'arte biellese, Cassiano del Pozzo.
Giungo nella piazzetta davanti al santuario dei torinesi, cuore della fede cittadina. È un luogo caratteristico, chiuso tra il santuario e palazzi del XVIII e XIX secolo, in cui si aprono caratteristici ristoranti e gli storici locali dell'Erboristeria Rosa Serafino e del Bicerin. Il santuario della Consolata, o secondo la denominazione ufficiale, “Chiesa di Santa Maria della Consolazione” è una basilica cattolica, dedicata a Maria, invocata con il titolo di "Consolatrice". Esso è considerato il più importante santuario della città. Fu anche abituale luogo di preghiera dei numerosi santi sociali piemontesi. Sotto l’aspetto architettonico è fra gli edifici più caratteristici della città ed è addossato ad un maestoso campanile, una delle poche vestigia torinesi rimaste, realizzate intorno all'anno 1000, con bifore, trifore ed archetti pensili. Esso è stato realizzato a completamento della precedente chiesa romanica sulla quale è stato edificato l'attuale santuario. Per la sua costruzione fu utilizzato anche del laterizio di epoca romana proveniente da rovine di abitazioni circostanti di patrizi romani. Nella parte sottostante del campanile sono ben visibili alcuni rilievi marmorei,. Sulla sua base quadrata una lapide ricorda i lavori di restauro pagati nel 1940 da Luigi Fornaca, conte di Sessant. Il santuario fu costruito su disegni del Guarini, che lasciò traccia su questo edificio della sua potente fantasia ed ingegno, che ardirei dire esuberante, visto che siamo in un luogo sacro . Infatti riuscì a creare un edificio, benché irregolare, sulla vecchia chiesa consacrata a Sant'Andrea. L'opera del Guarini fu conclusa dal Bertola. Nel 1729, invece, lo Juvarra aggiunse il presbiterio ovale. Mentre la facciata monumentale neoclassica fu aggiunta tra il 1899 e il 1904 da Carlo Ceppi e Antonio Vandone di Cortemilia. Il pronao tetrastilo, con colonne corinzie, fu realizzato in gusto neoclassico nell'ultimo rimaneggiamento del 1853, su disegni di Gioacchino Marone e Antonio Boffa, arricchito nel 1910 da due statue raffiguranti san Massimo e il beato Valfrè. Il pronao del portale reca la scritta latina CONSOLATRIX AFFLICTORUM, ovvero "consolatrice degli afflitti”. Il santuario ha una storia antichissima, edificata sui resti di una delle torri angolari della cinta muraria dell'antica Augusta Taurinorum, nel V secolo. Il vescovo Massimo, primo vescovo della città, le fece erigere, probabilmente sui resti di un precedente tempio pagano, una piccola cappella dedicata a Sant' Andrea con un edicola dedicata alla Vergine, in cui venne posta un'immagine della Madonna. Quest'immagine secondo la tradizione, fu un dono che il vescovo di Vercelli, Eusebio, regalò a Massimo, primo vescovo di Torino. La diocesi di Torino nasce verso l'anno 380, prima dipendeva da Vercelli. Il quadro con l'immagine della Madonna fu quindi collocato nella piccola chiesetta dedicata a Sant'Andrea, cappella che ancora oggi rimane parte integrante del santuario. La sua storia è legata a diversi eventi che la resero nei secoli, un punto di riferimento per tutti i torinesi. Il quadro nel IX secolo venne temporaneamente nascosto per proteggerlo dagli eretici iconoclasti che volevano distruggere ogni tipo di immagine sacra. Due episodi molto importanti sono legati a questa chiesa. Essi vengono raccontati in due testi appartenenti rispettivamente all'XI e al XIII secolo: il Chronicon Novalicense e la Cronaca di Fruttuaria. Nel primo si narra quando la chiesa divenne sede dei Monaci Novalicensi, cacciati dalla Valle di Susa dai Saraceni nel 906. A loro si deve il primo ampliamento della cappella che vide l'edificazione di una nuova chiesetta in stile romanico ed il campanile, unica sua testimonianza giunta ai nostri giorni. Quando il primo re d'Italia: Arduino, abdicò a favore del figlio Guido e si ritirò tra le mura dell'abbazia dei Benedettini ebbe una celebre visione, narrata nella Cronaca di Fruttuaria. Arduino, nel 1016, a seguito di un sogno in cui gli appare la Madonna, san Benedetto e Maria Maddalena che gli chiesero di costruire tre santuari, di cui uno doveva sorgere sul sito della chiesa di Sant'Andrea a Torino, ordinò prontamente, e al figlio Guido affidò il restauro della cappella torinese, che fu restaurata e il quadro della Vergine fu esposto nuovamente alla venerazione dei fedeli. Nel 1080 Torino fu devastata dai Saraceni e la chiesetta di Sant'Andrea fu ridotta a un luogo di sterpi e di ortiche. Il quadro della Madonna rimase sotto le macerie, solo la torre campanaria rimase in piedi. Secondo la tradizione, l'immagine della Beata Vergine della Consolata sarebbe stata trovata nei pressi della chiesa di Sant'Andrea da un giovane cieco a seguito di una visione. Si racconta che un giorno, Jean Ravais, nato cieco in una famiglia di Briançon, nella vicina Savoia (ora in Francia) si sentì "chiamato" verso Torino, per ritrovare là un'antica immagine della Madonna, nascosta tra le rovine di un'antica cappella. Il cieco partì, pellegrino, fra le disapprovazioni di tutti, attraversando le Alpi, tra la meraviglia e lo sconcerto dei tanti a cui raccontava la sua visione. Ancor più stupita, quando giunse a Torino, il pellegrino chiedeva dove fosse la cappella della Vergine distrutta, non ricevendo risposta alcuna, giunto sotto la torre campanaria si mise a piangere e pregare, scavando con le nude mani tra i ruderi dell'antica cappella. La gente presa dalla curiosità si radunò intorno a questo cieco ed il vescovo Mainardo, prontamente informato fece iniziare lo scavo e dopo tre giorni, tra la meraviglia di tutti, tornò alla luce l'antica cappella di Arduino e poi, il quadro della Madonna, prodigiosamente intatta. Miracolosamente la vista era tornata al cieco, era il 20 giugno 1104, che da allora fu il giorno della festa della Consolata. Il quadro della Consolata entra a far parte della storia e la cappella diventa santuario, connotandosi di lì in poi come immagine taumaturgica, dispensatrice di grazie e di miracoli. L'immagine è ancora oggi presente all'interno della cripta, ma non si tratta dell'originale come si credeva, bensì, di una copia fatta dall'artista Antoniazzo Romano e portata a Torino dal cardinale Della Rovere. Durante l'assedio franco-spagnolo di Torino del 1706 tutta la popolazione si strinse intorno all'immagine della Consolata alla quale si raccomandò per la propria salvezza e come ex voto vennero posti su tutta la circonvallazione occupata dai nemici, una serie di pilastrini in pietra, disposti lungo un circuito di 12 miglia, recanti l'effigie della Consolata e la data 1706. È ancora possibile osservare uno di questi piloni nel giardino all'interno della cancellata che circonda il santuario. Malgrado le cannonate, il santuario rimase in gran parte intatto, benché un proiettile che colpì la base della cupola, rimase conficcato nel muro e ancora oggi si può notare da via della Consolata. Una lapide commemorativa sulla parete laterale esterna reca la scritta «PROIETTILE ASSEDIO 1704» Nel 1706 il Consiglio Decurionale della città elesse "Maria Consolatrice" co-patrona, insieme a san Giovanni Battista della città di Torino. Nel 1802 con il decreto napoleonico di soppressione degli ordini religiosi costrinse i monaci a lasciare il monastero, e per un breve periodo il santuario si trasformò in caserma. Nel 1815 con la "Restaurazione", alla Consolata tornarono i monaci cistercensi ma vennero sostituiti nel 1834 dagli Oblati di Maria Vergine.
Anche nel XIX secolo l'immagine della Madonna della Consolata fu oggetto di particolare venerazione, lo testimonia la colonna votiva innalzata per la liberazione della città dal colera che infierì su Torino nel 1835, posta sulla stessa piazza, segno di pietà e fede.
Sono tante le volte che sono entrato dentro alla basilica, ed ogni volta sono colto da una fortissima sensazione di attrazione spirituale. L'interno è un incredibile continuo disegno, sembra un antico e ricco merletto con i suoi stucchi, i suoi marmi policromi, i suoi accesi colori degli affreschi, i luccicanti ori e le sue lame luminose di luce che trafiggono i vetri degli alti tamburi e delle colorate vetrate.
Non è facile descrivere la variegata pianta della basilica, sicuramente unica nel suo genere. Lascio a voi scoprirla, ricordo solo che un grande corpus ellittico anticipa la navata principale, quest'ultima a pianta esagonale, detto "esagono guariniano", essendo stato rimaneggiato dal Guarini sul finire del XVII secolo. Il Settecentesco altare maggiore è disegnato da Filippo Juvarra, mentre in una cappella laterale, quasi nascosta vi è il gruppo marmoreo di Vincenzo Vela, rappresentante le due pie regine Maria Teresa e Maria Adelaide, consorti di Vittorio Emanuele II e Carlo Alberto,in atto di pregare. Invece l'antica cripta, corrisponde all'attuale "Cappella delle Grazie" è visibile da un bellissimo loggiato in marmo.
All'interno del santuario vi sono importanti Cappelle e tombe di illustri personaggi religiosi torinesi, tra le quali ricordo: san Giuseppe Cafasso, collaboratore di don Bosco; del cardinale Richelmy, co-fondatore dell'Istituto Missioni della Consolata. Nella cappella di san Valerico o Valerio, la tradizione vuole che vi siano conservate le reliquie del santo di Leuconay, monaco francese del VI secolo, traslate durante gli spostamenti da Novalesa a Torino nel X secolo, traslazione raffigurata nel quadro del Cervetti del 1730.
In un coretto una targa ricorda Silvio Pellico, molto devoto alla Consolata, che proprio in questo luogo s'inginocchiava in preghiera. Ma quello che mi ha sempre affascinato del santuario, è l'immenso numero degli ex-voto affissi alle pareti. Testimonianza dei gesti di gratitudine dei torinesi che con ingenui quadretti, onorano il miracolo della grazia ricevuta. Mentre doni sontuosi sono quelli di principi, re e regine.
Se è possibile, consiglio una visita alle sagrestie, contenenti vere opere d'arte quali la sagrestia maggiore con gli arredi lignei intagliati del 1730 e volta affrescata nel Settecento da Michele Antonio Milocco, mentre in quello attiguo si possono ammirare oltre ad un altare del Settecento con dossali fiamminghi intagliati nel Cinquecento raffiguranti l'albero di Jesse e l'adorazione dei magi, anche affreschi Settecenteschi del Crosato e decorazioni a stucco cinquecentesche.
Si racconta che il manto purpureo che Napoleone indossò durante la cerimonia di incoronazione a Imperatore, fu donato dalla sorella a una nobildonna torinese, la quale lo divise in due parti, donandone una alla Consolata per essere usato per confezionare arredi sacri.
Nell'angolo, dietro al santuario, su via della Consolata e via Carlo Ignazio Giulio, nel 1884 durante lavori di restauro venne scoperta la base della torre angolare nord-occidentale della cinta romana. A base quadrata, ma con sviluppo ottagonale, da questa torre si sviluppava la cinta muraria verso est (Porta Palatina) e sud (lungo via della Consolata), verso la scomparsa Porta Prætoria.
Con passo trafelato, mano nella mano, vedo arrivare da lontano Ron ed Hermione, queste due mie giovani conoscenze con cui avevo appuntamento. Non sono di Torino, abitano in un Comune della prima cintura. Un bellissima coppia che ho conosciuto da poco, grazie a Ninfadora.
Ron mi viene incontro con il suo sorriso costante che pare esprimere perenne felicità. Non è altissimo ma ha un corpo atletico, con una carnagione leggermente olivastra, il suo viso rotondo, occhi grandi e scuri e un taglio di capelli sempre cortissimo. Hermione invece è snella, con un viso allungato, carnagione chiarissima con due profondi occhi chiari e lunghi capelli biondi e lisci che gli cadono oltre le spalle. I saluti sono come sempre cordiali ed affettuosi.
Entriamo in questo piccolo locale che dal 1763 ospita il Bicerin, esercizio commerciale noto per la bevanda omonima. Il bicerin è servito in un bicchiere di cristallo sottile da vino rosso, sul fondo si mette caffè espresso caldo, poi uno strato di cioccolata calda, uno di panna fredda, poi girato e zuccherato. Entrando nel locale sembra di essere trasportati in pieno Ottocento ed immersi in un particolare profumo che sa d'antico e di dolciastro. Questa è una metà obbligata per un'imperdibile esperienza per tutti i golosi e tutti coloro che vogliono essere trasportati nel pieno Risorgimento. Ci guardiamo intorno, pare di vedere delle nobildonne con gli abiti da passeggio, sedute agli antichi e piccoli tavolini. Immagino deliziosi abiti realizzati in tela di cotone, uno di essi è di color verde menta con organza in seta color latte, composto da gonna, corpino, sopragonna e camicia in organza di seta. Crinoline e vitini da vespa costretti dalle stecche di balena o di legno sono d'obbligo se si appartiene alla buona società. Un'altra, signora intenta a spettegolare su conciliabili amorosi, indossa un abito composta da un corpino e gonna, realizzato in seta di colore blu elettrico e camicia in raso di seta di colore nero. Ovviamente entrambi con l'immancabile ed elegante cappello realizzati in taffetà di seta, uno azzurro e uno color nocciola arricchiti entrambi da merletti e fiori di seta. Appoggiati al muro due ombrellini parasole da passeggio, in seta o tessuto leggero, color panna, decorati con una ampia frangia, manico in legno e puntale in avorio. Posti tra le tazze da tè ci sono i loro guanti in fine pelle di capretto, ricamati in filo di seta. Mentre due uomini seduti in un altro tavolino sorseggiano il bicerin. Entrambi con un look austero e rigoroso, con tagli semplificati, tessuti di panno robusto, privi di quelle decorazioni del frivolo costume barocco di moda fino a fine settecento e poi ritornate in voga per qualche tempo dopo la restaurazione. Abiti che evidenziano la praticità,il risparmio e l'ordine. La moda maschile era influenzata dalle tendenze modaiole inglesi. Elementi fondanti del guardaroba maschile erano i pantaloni, il gilet, la cravatta e i soprabiti. I pantaloni ormai sono lunghi fino alla caviglia, stirati e con una piega anteriore. Il gilet o panciotto aveva anche la funzione di modellare il torace maschile, dandogli la convessità delle antiche armature. La giacca o meglio la redingote, una lunga giubba a due falde e aperta sul dietro che permetteva di stare comodamente in sella si trasformò in abito da città, dopo un uso che per anni era riservato alle attività sportive. Dopo la metà del secolo, prese il nome di finanziera, proprio perché portata dal ceto borghese che si occupava di politica, affari e finanza. La "cravatta" che doveva essere inamidata e con fiocco adatto alle diverse occasioni, era corta con la sua forma a sacco, era caratterizzata soprattutto dalla larghezza, rigidamente di color bianco virginale. Non era difficile trovare a Torino in quegli anni nella seconda metà del XIX secolo anche il frac, anch'esso proveniente dalla moda londinese. Questo abito fu adottato dapprima come soprabito informale dagli aristocratici per la caccia e per la vita in campagna. Ma poi amato e utilizzato dai giovani dandies, come elemento d'obbligo della moda trasgressiva in contrapposizione alla marsina Ancien Régime. In questo caso era realizzato in panno blu e abbinato a pantaloni giallo pelle di daino infilati negli stivali. Ovviamente tutti con il cappello a cilindro, bastone da passeggio nero laccato con pomo d'argento. Chissà se stanno discutendo dell'alleanza franco-piemontese per unire l'Italia o di qualche fattaccio nero accaduto in città. Ci sediamo allo stesso tavolino in cui era consueto sedersi Camillo Benso conte Cavour e come lui ordiniamo un bicerin e lentamente ci godiamo il suo gusto dolceamaro. Il bicerin, è da allora la bevanda simbolo di Torino, nata in questo luogo che ne porta il nome. Un luogo dove la golosità ha fatto storia.
Il Bicerin non va confuso con il liquore omonimo prodotto con altri ingredienti che è invece un liquore alla crema Gianduia, venduto in bottiglia a forma di Mole Antonelliana. La tradizione voleva che il Bicerin andasse consumato fino a mezzogiorno, dopo sarebbe stato fuori luogo, si poteva chiederne anche una "stissa" in più, ossia una aggiunta di cioccolato. Ci si poteva e ci si può inzuppare qualche prodotto di pasticceria, come la Savoiardina, il Torcet, la Parisien, il Biciolan o anche il Crucion.
Chiacchieriamo, amabilmente del loro recente matrimonio che mi ha visto loro testimone, della difficoltà di trovare una casa più grande, del lavoro precario di Hermione e degli studi universitari di Ron. La scrittrice J. K. Rowling ha descritto Ron nella sua Hogwarts come una persona divertente, ma emotivamente immaturo e insensibile, mentre il mio amico Ron è molto maturo per la sua giovane età. È un ragazzo molto protettivo che mi ha dimostrato frequentemente di essere molto coraggioso nel proteggere la persona che ama.
Hermione invece è una ragazza molto studiosa all'apparenza autoritaria e pignola, ma è solo una impressione, è senza dubbio intelligente. Sono una bella coppia, unita e con entrambi una buona dose di buon senso. Mi piace chiacchierare con loro, soprattutto mentre gustiamo questa tradizione dolciaria piemontese. L'ambiente di questo piccolo locale ti avvolge con i suoi aromi sorprendenti. Le bacheche chiuse con pannelli pubblicitari, le vetrinette che espone la pasticceria, i tavolini rotondi di marmo bianco, sono gli stessi di un tempo e rendono calda ed elegante l'atmosfera del Caffè Al Bicerin, rimasto identico a com'era duecento anni fa. Esso era amato e frequentato oltre che dal conte di Cavour anche da Pablo Picasso, Alexandre Dumas (padre), Ernest Hemingway che inserì il bicerin nelle cento cose che avrebbe salvato e Umberto Eco che lo cita nel libro “Il cimitero di Praga”.
Il tempo scorre velocemente e i miei amici hanno degli appuntamenti importanti e dopo aver gustato questa bollente e stuzzicante squisitezza lasciamo i locale.
Su questa piazza s'affaccia, con ingresso su via della Consolata, il settecentesco palazzo Cacherano di Mombello. La storia di questo edificio è legata alla storia del vicino santuario, all'interno del quale si trova la tomba della famiglia Cacherano di Mombello. Esso è palazzo settecentesco padronale attribuito a Filippo Nicolis di Robilant, importante architetto. Durante il periodo Napoleonico fu temporanea sede del Senato. Nell'Ottocento il palazzo fu mutilato dell'ala settentrionale per ampliare la piazza prospiciente il santuario. Morto l'ultimo discendente maschio della famiglia Cacherano nel 1776, la proprietà passa a Teresa Felicita, che sposa il marchese Giuseppe Luigi Graneri della Rocca. Successivamente passo di proprietà a diverse famiglie, si racconta che fosse stata anche dimora, nella prima metà del '900, di Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon, governatore del Dodecaneso e ministro dell'Educazione. Prima di lasciare la piazza, in compagnia di Ron ed Hermione, ricordo solo che nell'adiacente via della Consolata, al civico 24, Giacomo Bosio aprì nel 1845 la prima birreria cittadina, denominata "Giardino".
Mentre iniziamo a percorrere via delle Orfane ricordo alcuni film girati in piazza della Consolata come le scene di "Amore e ginnastica" del 1973 di Filippo D'Amico o il film "La meglio gioventù", del 2003, diretto da Marco Tullio Giordana. Il film racconta trentasette anni di storia italiana, dall'estate del 1966 fino alla primavera del 2003, attraverso le vicende di una famiglia della piccola borghesia romana, benché sia stato girato in molte parti d'Italia, Torino compresa.
Il titolo della pellicola è ispirato alla omonima raccolta di poesie pubblicata nel 1954 da Pier Paolo Pasolini.
È proprio vero quello che scriveva Cesare Pavese su Torino: "Città della fantasticheria, per la sua aristocratica compiutezza composta di elementi nuovi e antichi; città della regola, per l'assenza assoluta di stonature nel materiale e nello spirituale; città della passione, per la sua benevola propizietà agli ozi; città dell'ironia, per il suo buon gusto nella vita".



Fine XLVII parte.