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Luci ed ombre a Torino (L parte)

Giovedì 01 Settembre 2016 10:42
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NaginiGiungo così al Rondò della Forca. Con questo nome si indica un punto preciso, in un ampio spazio cittadino, che i topografi cittadini non hanno voluto, penso, intitolare a nessuno. Uno spazio che si trova tra corso Regina Margherita e corso Valdocco, nel quale si trovava il patibolo che fino al 1863, in cui conobbero la morte dozzine di condannati.
In quel periodo, l'attuale Rondò della Forca era in aperta campagna, scelto forse per la sua vicinanza alla prigione che si trovava in quella che oggi è via Corte d'Appello.
Il macabro rituale dell'esecuzione capitale era sempre lo stesso da secoli. Il condannato giungeva sul luogo del supplizio a bordo di un carro con le mani legate, in compagnia del sacerdote. Arrivata l'ora dell'impiccagione, il Sindaco della Misericordia bendava gli occhi al condannato e don Cafasso concedeva l'assoluzione e faceva baciare il crocifisso. Infatti quest'angolo di Torino, è legato proprio alla memoria di don Giuseppe Cafasso (1811-1860), dove gli è stato dedicata una statua. Eretta nel punto esatto in cui una volta vi era il patibolo. Monumento dedicato a colui che divenne il patrono dei condannati a morte per il sostegno spirituale incondizionato che offrì a tutti coloro che salivano sulla forca, incurante che fossero colpevoli o meno.
Anche quest'area di Torino ha una storia macabra e molto più antica. Infatti il nome del corso Valdocco deriverebbe dal toponomastico di latina memoria Vallis Occisorum (valle degli uccisi). Ossia luogo in cui venivano eseguite le sentenze capitali. Alcune fonti, invece, propendono per un'origine germanica tratta dalla radice wald, ossia bosco o, più letteralmente, indicando così la morfologia del territorio nei secoli passati.
Le esecuzioni attiravano sempre un gran numero di curiosi; gli spettatori valutavano anche l'operato del boia, come ad esempio se non si lasciava pregare il condannato, se non si ascoltavano le sue ultime parole, o se non si offriva l'ultima scodella di brodo caldo al condannato "il brod d'ondes ore" in ricordo di quando le esecuzioni si svolgevano alle 11 del mattino.
Se il boia non era lesto nel suo compito, prolungando più del dovuto l'agonia del condannato, ciò scatenava l'ira popolare. La sentenza, vista come un opera teatrale con il boia protagonista finiva con dei fischi per il boia impacciato e applausi per quello abile, proprio come a teatro.
L'esecuzione non doveva durare più di 30 minuti, dall'uscita dal carcere, alla deposizione del cadavere.
Non avveniva come si vede nei film, il boia e i suoi assistenti avevano compiti definiti.
Infatti il boia spingeva nel vuoto il condannato, dalla scala su cui si reggeva, quindi gli doveva balzare con tutto il suo peso sulle spalle e con un piede sul collo lo fletteva sulla spalla opposta, mentre in basso l'aiutante tirava il condannato per i piedi, appunto il "tirapiedi" per accelerarne la morte del condannato.
Con questo si spiega l'odio e il disprezzo che circondava la figura del boia e dei suoi aiutanti. Il compenso, però per i boia e i suoi aiutanti, generalmente sui figli o parenti era buona: nel 1838 un "garzone esecutore di giustizia" guadagnava 100 lire al mese e dopo 8 anni diventava "esecutore effettivo" per 125 lire mensili, ossia il doppio o il triplo di un panettiere, talvolta la stessa cifra di un professore di prima nomina all'Università. La corda usata nelle impiccagioni veniva custodita dal Governatore in una apposita borsa di velluto e bruciata pubblicamente, con grande solennità, alla vigilia della festa di San Giovanni Decollato.
Ma conosciamo anche le tariffe del boia nel 1575: impiccagione 21 lire, squartamento 36 lire e rogo per le streghe 16 lire.
Anticamente la giustizia era molto severa, infatti per esempio nel 1723 il valdostano Andrea Ploz fu decapitato per aver fatto malefici e sortilegi di magia nera contro la moglie Maria Arnod; nel 1785, invece Francesca Moretto fu condannata ad "essere appiccata per la gola fino a che l'anima non sia separata dal corpo, questo dopo l'applicazione delle tenaglie infuocate" per aver avvelenato il marito.
Qualche statistica, raccolte da diverse pubblicazioni lette qua e là: tra il 1738 e il 1864 avvennero 887 esecuzioni capitali. Di cui 345 impiccati tra il 1738 e il 1799 con una media di 5,5 in media all'anno e tra 1800 e il 1814 furono tra fucilati, impiccati e ghigliottinati 423. Mentre tra il 1815 e il 1830 s'impiccarono 51 persone. Poi a seguire tra il 1831 e il 1848 furono 15 i condannati, meno di uno l'anno e tra il 1849 e il 1861 furono 51, fino al 1862 e il 1864 con 2 condannati alla pena capitale. Mentre il 22 maggio 1849 in piazza d'Armi venne fucilato il generale Ramorino. Costui era accusato di tradimento e della disfatta della Battaglia di Novara del marzo 1849. Il generale Ramorino chiese ed ottenne di essere lui stesso a comandare il plotone di esecuzione e gli fu attribuita la celebre frase: "La storia mi giustificherà".
Sebbene nel 1834 venne abolita la tortura della ruota e delle tenaglie infuocate, la severità della polizia non si allentò, anzi il governatore militare, conte Galateri, e l'Ispettore generale di polizia conte Fabrizio Lazari, ad esempio, mandarono al Crottone ossia nelle celle sotto palazzo Madama, un medico che aveva osato mandare la parcella a un nobile. L'ultimo impiccato fu Carlo Savio nel 1864, poi si passò solo alla fucilazione. L'ultima fu il 4/3/1947 quando alle basse di Stura venne giustiziata la banda di Villarbasse. Questa tetra storia inizia il 20 novembre 1945, tra le 20 e le 20.30, quando quattro banditi siciliani Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D'Ignoti e Pietro Lala (che si faceva però chiamare Francesco Saporito), entrarono a forza nella Cascina Simonetto, nella campagna torinese, dove il proprietario, l'avvocato Massimo Gianoli di anni 65, era raccolto, con i suoi 9 ospiti, attorno a una bella tavolata a base di bagna cauda. Mascherati con dei tovaglioli e armati con due pistole, sequestrarono tutti i convenuti e cercarono la cassaforte, convinti che in casa ci fossero molti contanti. Uno dei banditi, Pietro Lala di 21 anni, già pregiudicato per rapina, perse la maschera e venne subito riconosciuto, in quanto aveva lavorato presso la cascina come mezzadro, sotto falsa identità. È così che ha inizio il terribile massacro. Un bandito, Giovanni Puleo di 32 anni, professione ciabattino, sceso nella cantina, si posizionò sull'orlo di una cisterna con un grande randello per accoppare le vittime che una ad una gli venivano portate. Si salverà solo un bambino di due anni, abbandonato in una stanza. Mentre furono uccisi anche i mariti di due delle domestiche, saliti alla cascina per cercarle. Senza pietà, furono uccise 10 persone con le mani legate con filo di ferro dietro la schiena, gettate, forse ancora vive, nella cisterna per la raccolta d'acqua piovana.
Il bottino fu magro, circa duecentomila lire, tre salami, un po' di biancheria. I quattro, tutti originari Mezzojuso, vicino a Palermo, erano arrivati a Torino con la guerra, erano tutti dediti al mercato nero. Pietro Lala si rifugiò a Mezzojuso, dove nel 1946 venne trovato morto. Gli altri, Giovanni Puleo,Giovanni D'Ignoti, manovale di anni 31; Francesco La Barbera, garzone di cucina di anni 26, grazie ad una giacca sporca di sangue, da loro abbandonata nei campi furono rintracciati e arrestati. Vennero processati davanti alla Corte d'Assise di Torino dal il 3 al 5 luglio 1946 e condannati alla pena capitale. La Corte suprema confermò la sentenza e l'allora Presidente provvisorio di Stato Enrico De Nicola, spinto anche dall'indignazione popolare per quell'efferato delitto, rifiutò la richiesta di grazia dei tre condannati.
La Repubblica era già nata e i Costituenti erano pronti a scrivere l'articolo 27 che cancellava la pena capitale, ma per tre autori della strage Villarbasse non si commosse nessuno. Furono gli ultimi condannati a morte in Italia.
La Nuova Stampa titolò il 4 marzo 1947 «I massacratori di Villarbasse fucilati stamane all'alba», ma la cronaca dell'esecuzione venne raccontata mercoledì 5 marzo, in prima pagina, con il titolo: «Fucilazione di tre barbari». Il cronista così la descrisse: «Tre sedie di legno, legate saldamente a paletti conficcati nel terreno, s'alzano sinistre e stecchite nello squallore dell'alba nebbiosa. Recano il segno dell'umana pietà, inciso a mezza luna nello schienale, per accogliere la gola del giustiziato agonizzante. Tutto è pronto per l'esecuzione. Dall'ombra opaca emergono nel breve cerchio della vista figure silenziose in casco nero. Le canne brunite dei fucili si riscaldano al tepore delle mani ed in ciascuna, una pallottola attende l'impulso mortale. Ai ragazzi è stato detto che metà delle armi sono caricate a salve per evitare tardivi pentimenti. Il plotone si addossa al muro grigio del poligono per nascondersi allo sguardo dei condannati e l'attesa sfiocca lenta nelle incerte trasparenze. [...] Il Puleo ed il La Barbera guardano gli astanti quasi con aria di sfida; il D'Ignoti, floscio in un adipe precoce, gira attorno gli occhi smarriti e pavidi. Per un attimo ritrova la forza di reggersi quando i suoi due compagni chiedono ai fotografi di essere ritratti, ma i lampi del magnesio sembrano bruciargli quell'effimera parvenza di vita ed a capo chino, le guance cadenti, s'avvia al luogo dell'espiazione. Breve interminabile tratto in cui s'esaurisce un'esistenza traviata, che s'è messa al bando dell'umanità nella tragica notte di cascina Simonetto. Il Puleo e il La Barbera ostentano invece una sicurezza che li esalta. Un po' ebbri di cognac, pur avendo rifiutato il pietoso farmaco che dà l'incoscienza agli ultimi istanti, dopo aver sorriso cinicamente davanti ai fotografi, rizzando le barbe aguzze, gridano il loro evviva alla Sicilia ed a Finocchiaro Aprile. Quest'ultimo fu un politico italiano, leader del Movimento Indipendentista Siciliano. Nella loro primitiva e barbara coscienza era quella l'invocazione all'estrema solidarietà dell'isola che li aveva generati. La loro voce però non ha echi ed ogni volta il grido si spegne nel lividore del mattino senza sole». Prosegue la cronaca: «I trentasei uomini del plotone d'esecuzione avanzano coi moschetti bilanciati. Nessun ordine vien dato alla voce, ma al cenno dell'ufficiale essi si dispongono in doppia fila a sei metri dai condannati. Attimi sospesi in quello spazio senza tempo, e oltre il breve limite, i tre assassini, soli, ai margini dell'eternità. Padre Ruggero ha offerto loro da baciare il crocifisso ed arretrando, ad alta voce li conforta con la preghiera. Il La Barbera ed il Puleo, pur con le mani legate e la benda agli occhi, continuano a fumare la sigaretta; questi, tranquillamente, ne scuote la cenere battendola leggermente con l'indice. È l'ultimo gesto di vita. Un ordine secco risuona: «Fuoco!» ed una fiammata divampa con un solo rimbombo. Sono le 7,45. Nella fissità della morte si è riscattata la umanità dei colpevoli. Il medico della polizia si avvicina immediatamente ai fucilati e dopo averne constatato il decesso, comunica al Procuratore della Repubblica che «giustizia è fatta». Mentre il plotone di esecuzione e il gruppo dei giornalisti presenti si allontanano, padre Ruggero benedice le salme, tracciando col pollice sulle tre nuche recline il segno della croce».
Anche se questa fucilazione non è avvenuta al Rondò della Forca ma a basse di Stura rappresenta per Torino un tragico ed oscuro momento.
Fermo al semaforo, vedo strisciare Nagini, anche se costui è alla guida della sua auto blu, diversamente non saprei definire questo intimo amico del diavolo. Nella Hogwarts della Rowling, Nagini era un serpente grande come un boa o un'anaconda, ma era anche un Horcrux del Signore oscuro. In quella torinese è un personaggio, non alto alto e abbastanza tarchiato, viso tondo, capelli sempre tagliati corti, occhi vivaci, parlantina fluente di chi vuol sapere tutto. Il classico personaggio che finché gli fai comodo ti striscia vicino, poi se serve ti avvolge e ti strangola. L'ho visto comportarsi così con tanti frequentatori della Hogwarts torinese. Atteggiamento che ha tenuto anche con il sottoscritto. D'altra parte dove potevo incontrarlo se non al Rondò della Forca?
Il semaforo diventa verde, e lo vedo velocemente sibilare via.
Valdocco è conosciuto anche per la nascita e per la presenza del principale centri della congregazione dei Salesiani. In questo quartiere, Giovanni Bosco, poi divenuto santo per la chiesa cattolica, ebbe in uso la Tettoia Pinardi per le attività in favore dei ragazzi della zona. Ben presto la tettoia fu sostituita dal santuario di Maria Ausiliatrice, voluto da Don Bosco. Le attività negli anni si moltiplicarono e Valdocco divenne il centro propulsore della nascente congregazione dei Salesiani. La prima pietra del santuario venne posta il 27 aprile 1865 alla presenza del principe Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, figlio secondogenito del re Vittorio Emanuele II. La chiesa poté dirsi finita con il posizionamento della grande statua della Madonna nel 1867 e con la sua consacrazione che ebbe luogo il 9 giugno 1868.
La facciata del santuario è in stile rinascimentale sul modello palladiano molto simile alla chiesa di san Giorgio Maggiore a Venezia. Il timpano è retto da quattro colonne sul quale sono poste le statue dei martiri Solutore, Avventore e Ottavio, che secondo la tradizione trovarono il martirio proprio a Valdocco.
Sul campanile di destra una statua dell'arcangelo Gabriele sembra offrire a Maria una corona che è posta in cima alla cupola e ivi collocatavi nel 1867, mentre sul campanile di sinistra l'Arcangelo Michele sventola una bandiera con scritto Lepanto. A lato del timpano, a coronamento, sono poste le statue di san Massimo e di san Francesco di Sales.
Sotto il timpano, sull'architrave, è leggibile la scritta: "Maria auxilium christianorum ora pro nobis" e sotto il rosone si trova la statua in marmo di "Gesù tra i fanciulli".
Tra le colonne, a destra e a sinistra della fascia centrale, due altorilievi rappresentano "san Pio V che annuncia la vittoria di Lepanto" e "Pio VII incorona Maria".
Invece sotto rosone vi è una statua Gesù tra i fanciulli e nelle nicchie sotto gli orologi san Giuseppe e san Lungi Gonzaga. Il santo fondatore dei Salesiani riposa in un urna di cristallo, e in questo santuario vi son anche le spoglie di madre Maria Mazzarello, fondatrice delle figlie di Maria ausiliatrice e salesiane, di san Domenico Savio uno dei discepoli prediletti e di Michele Rua, successore di don Bosco.
Certamente Torino e il Piemonte in genere hanno un particolare rapporto con le reliquie e il santuario di Maria ausiliatrice non ne è esente. La reliquia ha sempre avuto nell'immaginario collettivo un fascino particolare, colmo di mistero. Infatti il santuario contiene un presunto frammento della croce di Cristo, una reliquia che oscura le altre oltre cinquemila reliquie presenti nel santuario. Reliquie provenienti per la maggior parte da una collezione privata donata alla chiesa nel 1920. Su san Giovanni Bosco si è scritto tanto, ed io riporto solo alcuni curiosi racconti, che vorrebbero essere lette come profezie. Si racconta che nel dicembre del 1854, mentre in Parlamento sabaudo si discuteva la legge per la soppressione degli ordini religiosi e l'incameramento dei loro beni, Don Bosco sogna un bambino che gli affidava un messaggio. Il messaggio annunciava un gran funerale a corte. Questo sogno fu destinato a scatenare un vero terremoto nella famiglia reale, soprattutto perché don Bosco sente la necessità di informare immediatamente il Re, invitandolo a votare i castighi di Dio, impedendo l'approvazione di quella legge. Dopo alcuni giorni, don Bosco invia un'altra lettera, con un altro avvertimento, con un altro sogno e l'annuncio di quel bambino che diceva non di un gran funerale a corte, ma grandi funerali a corte. Quanto previsto don Bosco comincia ad avverarsi e il 5 gennaio l855, si diffonde la notizia di un'improvvisa malattia che ha colpito la madre del Re Vittorio Emanuele II,Maria Teresa. Sette giorni dopo, a soli 54 anni di età, la Regina madre muore. Mentre il Re sta tornando dal funerale, il 16 gennaio, la moglie di Vittorio Emanuele II, Maria Adelaide, che ha partorito da appena otto giorni, subisce un improvviso e gravissimo attacco di metro-gastroenterite. Dopo soli quattro giorni dopo che è stata inviata ultima lettera di don Bosco al Re, la giovane moglie, la regina Maria Adelaide, a soli 33 anni, muore. Era il 20 gennaio l855. Ma la tragedia nella famiglia reale non è finita. Quella stessa sera del 20 gennaio, il fratello del Re, Ferdinando, duca di Genova, riceve il sacramento dei morenti e muore l'11 febbraio. Aveva anche lui, come la Regina, solo 33 anni.
Nonostante le profezie e gli avvertimenti di don Bosco, la legge viene approvata il 2 marzo, con 117 voti a favore contro 36. Nel mese di maggio la legge passa al Senato per la definitiva approvazione e il 17 maggio, poco prima della definitiva approvazione, casa reale è colpita da una nuova sconcertante morte: muore il piccolo Vittorio Emanuele Leopoldo, il figlio più giovane del Re.
Insomma viene messa in "bocca" a don Bosco questa grande responsabilità profetica riguardante la contestata legge sulla soppressione degli ordini religiosi e l'incameramento dei loro beni. Il Re firmò la legge e ben 334 case religiose vennero soppresse. Il Papa inviò la "scomunica maggiore" per tutti "gli autori, i fautori, gli esecutori della legge". La scomunica andava a colpire un Re che si diceva cattolico. Scomunica che papa Pio IX, nonostante le umiliazioni subite personalmente e dalla Chiesa, nel 1859, su richiesta di Vittorio Emanuele, accorderà il perdono pieno e senza condizioni al Re.
Ancora nel 1855, in piena lotta della Chiesa contro la legge Rattazzi, don Bosco pare pubblichi un opuscolo in cui rifacendosi ai suoi sogni e alle sue intuizioni, invitava il Re affinché non firmasse quella legge. Scriveva testualmente don Bosco: "la famiglia di chi ruba a Dio è tribolata e non giunge alla quarta generazione". Dapprima, il governo piemontese ne decide il sequestro, poi per paura di fare pubblicità al prete di Valdocco, non viene messo in pratica non viene eseguito. Anche questa ammonimento trova poi realizzazione. Vittorio Emanuele II muore a soli 58 anni.Suo figlio e successore, Umberto I muore 56enne a Monza, sotto i colpi di pistola dell'anarchico Bresci. Il nipote, secondo successore, Vittorio Emanuele III, scappa di notte dal Quirinale, l'8 settembre del 1943 e tre anni dopo sarà costretto ad abdicare. Il terzo successore, ossia Umberto II, fu re per meno di un mese e, perduto il referendum popolare, deve accettare un esilio senza ritorno. Come scriveva don Bosco, i Savoia non sono giunti alla quarta generazione. Profeta?, mago? casualità? non si sà, ma nei chiaroscuri o luci ed ombre torinese ci sta!
Per recarmi in piazza Statuto, percorro corso Principe Eugenio, e proprio all'altezza del civico 9, fu fucilato in strada, nel 1945, Luigi Soffiantino di soli 22 anni, dai militi fascisti perché trovato in possesso di armi.


Fine L parte.