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Luci ed ombre a Torino (LIV parte)

Domenica 01 Gennaio 2017 10:42
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Dudley DursleyCi gustiamo lentamente le nostre coppette di gelato, mentre guardiamo transitare i passanti nella via dedicata allo "struscio" cittadino. Non posso percorre tutta via Garibaldi, devo raggiungere il luogo di appuntamento con Ron ed Hermione. Lascio Remus Lupin con un caloroso saluto, speranzoso che i nostri rapporti tornino un giorno ad essere sorridenti come un tempo.
Percorrendo via San Tommaso e via Monte di Pietà, mi viene in mente che nel tratto finale di via Garibaldi vi siano ancora lapidi che ricordano illustri personaggi come per esempio Nino Oxilia (1889 – 1917), poeta torinese vissuto a cavallo fra Crepuscolarismo e Futurismo, la sua lapide è posta vicino al civico 9. Costui, già giornalista, a soli ventidue anni raggiunse la fama nel 1911 con la commedia a tema studentesco "Addio giovinezza!" (scritta con l'amico Sandro Camasio) poi trasformata in operetta nel 1915. Nino Oxilia e Sandro Camasio erano chiamati dagli amici "I Dioscuri", come i personaggi mitologici Castore e Polluce, gemelli, ma uno immortale e l'altro no. Quando Castore fu ferito a morte in combattimento, Polluce ottenne da Zeus, loro padre, che la propria immortalità fosse divisa in due, per essere spartita con il fratello. E divennero stelle in cielo, ossia la costellazione dei Gemelli. Leggendo la vita dei due amici Oxilia e Camasio, non posso non notare quanto il loro destino fu simile ai "Dioscuri". Oxilia fu uno scrittore, giornalista, poeta e regista. Diresse le maggiori dive cinematografiche italiane, come Francesca Bertini, Lyda Borelli e Maria Jacobini. A quest'ultima fu sentimentalmente legato e le dedicò poesie appassionati. Diresse film come: "In hoc signo vinces" del 1913, "Addio giovinezza!" sempre del 1913, ancora "Rapsodia satanica" del 1915, "L'Italia s'è desta! " del 1916 e molti altri. Durante la prima guerra mondiale partì per il fronte dove morì falciato da una granata mentre partecipava alla difesa della linea del Monte Grappa nel 1917. Lasciò una raccolta di poesie inedite e incomplete, parzialmente andate distrutte durante i combattimenti. Esse furono pubblicate, nel 1918, col titolo "Gli orti". Celebre "Il Commiato", canto goliardico destinato ad essere trasformato, da altri, prima in inno degli Arditi della Grande Guerra e poi nell'inno nazionale fascista "Giovinezza".
Sandro Camasio, invece, fu giornalista, scrittore e regista italiano, nacque il 5 aprile 1886 a Isola della Scala (VR) e morì a Torino il 23 maggio 1913 per meningite. Sempre in collaborazione con l'Oxilia e con Nino Berrini scrisse la rivista teatrale satirica "Cose dell'altro mondo" e si cimentò anche come regista con il film L'antro funesto (1913).
Una seconda lapide posta al civico 4 commemora il giovane poeta e patriota siciliano Giuseppe Macherione da Giarre (1840-1861). Essa fu posta, nel 1930, sul fronte della residenza in via Garibaldi nella quale morì. Infatti sulla lapide è inciso il seguente epitaffio:
IN QUESTA CASA/
MORÌ A VENTUN ANNI/
GIUSEPPE MACHERIONE/
DA GIARRE/
VOCATO ALLA GLORIA DELLIDEALE/
PER GENIO DI POESIA E VIRTÙ DI CUORE/
FULGENTI NELLISPIRATA GIOVINEZZA/
SICILIANO ARDENTE DITALIANA FEDE UNITARIA/
NEL PENSIERO NELLOPERA NELLA PENNA/
PRONTO E SALDO IN OGNI CIMENTO/
PER LA NUOVA VITA DELLA PATRIA/
22 MAGGIO 1861
L'epigrafe vuole ricordare la passione per gli ideali del Risorgimento del poeta siculo che dedicò delle poesie sia al condottiero Garibaldi che al sovrano Vittorio Emanuele II, dopo l'annessione dei territori borbonici nel 1861. Il giovane giunse a Torino con gli altri deputati siciliani in occasione della prima riunione dei rappresentanti del Regno d'Italia e vi morì a causa della cagionevole salute.
Un'ultima lapide ormai quasi illeggibile, posta al civico 8 di via Garibaldi, ricorda l'avvocato Giovanni Andrea Bagetto, che il 23 settembre 1780 cedette tramite legato al Regio Ospizio di Carità di Torino il palazzo di sua proprietà.
Sempre in via Garibaldi insiste la chiesa della Confraternita della Santissima Trinità che ha origine nel 1557 per promuovere l'assistenza ai pellegrini diretti a Roma. Nel 1583, per sopperire alla mancanza di una sede adeguata, si decise di abbattere il vecchio edificio per affidare la costruzione della nuova chiesa al confratello Ascanio Vitozzi da Orvieto. L'architetto progetta una fabbrica che richiama costantemente il motivo della Santissima Trinità proponendo un progetto a pianta centrale prevedendo tre ingressi, tre cantorie, tre cappelle e tre altari. L'interno, invece, è prevalentemente opera dell'architetto Filippo Juvarra (1718) e fu realizzato con gran sfoggio di marmi policromi. La cupola, presenta invece affreschi ottocenteschi di Luigi Vacca e di Francesco Gonin. La facciata fu rifatta nel 1831 da Angelo Marchini. I bombardamenti su Torino del 13 luglio del 1943 causarono gravi danni alla chiesa e ancora oggi la parte absidale è priva di decorazioni. In sagrestia, piccolo gioiello poco conosciuto, vi si conserva all'interno l'affresco del Beaumont che rappresenta il sacrificio di Melchisedec. Importanti sono le lapidi poste nella chiesa, una delle quali ricorda il passaggio da Torino, di papa Pio VII costretto a fuggire da Roma per l'arrivo delle truppe francesi capeggiate da Gioacchino Murat. Il pontefice, invitato dal re Vittorio Emanuele, giunse in città il 19 maggio 1815 e si soffermo a Torino per 33 giorni, in occasione della quale il re dispose l'ostensione della Sindone. Incredibile il ripetersi del numero tre in questa chiesa, quasi fosse un numero magico.
Transitando in via San Tommaso, quasi scorgo l'omonima chiesa, posta in via Pietro Micca e mi viene alla mente una vecchie specialità della cucina piemontese: lo zabaglione ('L Sanbajon). Fra Pasquale de Baylon (1540-1592), del Terzo Ordine dei Francescani, giunto a Torino per il suo apostolato presso la parrocchia di San Tommaso, consigliava alle sue penitenti che si lamentavano della poca vivacità a letto del consorte, di aiutarli con una sua ricetta a base di zucchero, tuorlo d'uovo e vino dolce liquoroso, che avrebbe dato vigore e forza ai mariti. Il frate fu santificato nel 1680 da Papa Alessandro VIII ed entrò rapidamente nella leggenda, tanto che la crema era chiamata crema di San Baylon, e venne ritenuta miracolosa. Nacque così a Torino 'L Sanbajon, in seguito italianizzato in Zabaione o Zabaglione. Altri affermano, invece, che una dolce bevanda simile allo zabaione sembra fosse già nota nel 1533, era servita in forma ghiacciata alla corte di Caterina de Medici. Un'altra tradizione racconta che lo zabaione sia stato "inventato" nel 1471 vicino a Reggio Emilia per pura casualità: il capitano di ventura Giovan Paolo Baglioni che arrivato alle porte della città vi ci si accampò e mandò, com'era uso a quel tempo, alcuni soldati a razziare le scorte di viveri dei contadini della zona, ma trovò ben poco se non uova, zucchero, qualche fiasca di vino e delle erbe aromatiche. In mancanza d'altro fece mescolare il tutto e lo diede ai soldati al posto della solita zuppa. Giovan Paolo Baglioni era popolarmente chiamato Zvàn Bajòun e la crema ne prese il nome diventando prima ‘Zambajoun e infine Zabaglione. Noi ci rifacciamo al Dizionario Piemontese - Italiano del Cav. Vittorio Felice di Sant'Albino (edito a Torino nel 1859 ) che cita 'L Sanbajon e che fu già presentato nella edizione del Cuoco Piemontese stampato a Torino nel 1766. San Pasquale de Baylon è, dal 1722 è il Santo Protettore di tutti i cuochi del mondo. La sua festa è il 17 maggio ed è appunto venerato in Torino nella chiesa di San Tommaso in Via Pietro Micca.
Pensando ai dolci non si può non pensare ad un altro celeberrimo dolce tipico torinese il Gianduiotto. Questo cioccolatino deve il suo nome a Gianduja, Gian d'la duja o Giovanni del Boccale, la caratteristica maschera piemontese, simbolo della lotta per l'indipendenza del Piemonte nel 1799. Nasce come cioccolato gianduia, merito dei mastri cioccolatieri che misero a punto un nuovo tipo di cioccolato ottenuto impastando il cacao e lo zucchero con le nocciole "tonde e gentili" delle Langhe. L'impasto sembra essere imputato alla casualità nel tentativo di trovare un'alternativa alla carenza di cacao, a causa del blocco napoleonico del 1806. I pasticceri piemontesi non riuscendo a rifornirsi del cacao ebbero l'idea di mescolare il cacao con le nocciole locali, finemente polverizzate. A questo nuovo cioccolatino inizialmente venne attribuito il nome dal dialetto piemontese "givù", che in italiano significa "bocconcino". L'origine più accreditata dell'attuale nome vuole che nel 1866, durante una parata in onore del Carnevale, un figurante vestito da Gianduia ebbe l'idea di regalare alla folla i nuovi cioccolatini, gesto che fu una sorta di battesimo per il cioccolatino che da quel momento assunse il nome di gianduiotto. La forma del gianduiotto è dovuta al cioccolatiere Caffarel, che nel 1865 creò l'originale forma a spicchio, ma fu anche il primo cioccolatino incartato, fino allora i cioccolatini erano venduti sfusi.
Avvicinandomi invece all'incrocio con via Barbaroux, mi sembra di sentir cantare "Alé alé alé/andoma a ciolé/ a-j'e l'America an via dij Plissé".
Così cantavano per strada i giovanotti qualche decennio fa quando si recavano in un bordello. Ve ne erano molti a Torino, come quello in via dei Pellicciai, l'odierna via Conte Verde. In questi luoghi la maîtresse chiamava le ragazze con litanie musicali. Le belle e provocanti signorine si ritiravano nelle camere con i giovanotti che disponevano di qualche soldo, mentre i più giovani e squattrinati rimanevano a "far flanella", cioè a chiacchierare, scherzare e curiosare nel salone senza poter pagare. Ciò accadeva quando le case di tolleranza erano appunto tollerate, ma talvolta anche gestite dallo Stato. Frequentate da torinesi di ogni ordine e classe: dagli imberbi studentelli, ai militari, agli operai e artigiani, fino ai professionisti, ai giornalisti e professori universitari. Le case chiuse, così chiamate per le persiane sempre abbassate a protezione della morale,si dividevano per classi sociali: i frequentatori più indigenti frequentavano il lupanare di via Conte Verde, la borghesia si recava nelle due "case chiuse " di via Calandra o in via Principe Amedeo, mentre i più distinti e facoltosi si potevano accomodare nei lussuosi postriboli di via Michelangelo, via Massena o anche di corso Raffaello. Esistevano però anche "case di piacere" più esclusive e riservate, appunto come il "Babi" di via Barbaroux, in cui ricchi ed influenti "aficionados", al momento di uscire un'inserviente assicurava loro che in strada non ci fosse nessuno e che quindi il cliente non rischiasse di essere visto. Stesso servizio era fornito dalla casa di piacere di via Cellini.
Mentre penso a queste cose vedo uscire Dudley da una nota e ben fornita macelleria. La Rowling descrive Dudley come un ragazzo obeso, viziato e anche parecchio ottuso, con la faccia somigliante a quella di un maiale e i capelli biondi (neri nella serie cinematografica). Un ragazzo molto capriccioso che si rivela anche aggressivo e prepotente, ma vigliacco di fronte alla magia. Anche il Dudley torinese è corpulento ma ha un grosso faccione simpatico. E se Dudley, grasso cugino di Harry Potter, una volta raggiunta l'età adolescenziale, va in giro con la sua banda a fumare, a comportarsi da vandalo e a picchiare ragazzi più giovani, quello torinese è totalmente diverso. Infatti e di indole pacifica e tranquilla, un'aria bonaria: un ragazzo apparentemente mite e timido.
Mi vede, mi sorride, si sofferma un attimo per un saluto cordiale, quasi avesse paura a rivolgermi la parola o di essere visto da qualche suo amico mangiamorte a parlare con il sottoscritto. Un incontro sfuggevole, mi dispiace solo che Dudley si fosse sentito a disagio ad incontrarmi. D'altra parte, benché sia sempre stato succube e al servizio dei peggiori mangiamorte, mi ha sempre fatto divertire ed è sempre stato rispettoso nei miei confronti
Riprendendo il mio cammino, continuo a pensare come questa via abbia visto un tempo molti frequentatori di antichi prostriboli e della vita di queste ragazze che vi lavoravano. L'igiene personale era garantita, infatti, le ragazze erano controllate settimanalmente da un medico, che le ragazze chiamavano "il tubista", pena l'impossibilità di lavorare. Le "Case di Tolleranza" come vengono chiamate ufficialmente, nascono nella seconda metà del XIX secolo con il governo Crispi ed erano controllate dallo Stato. Esistevano "case chiuse" di prima, seconda e terza categoria. Le tariffe fissate dallo Stato andavano dalle 2 alle 5 lire a prestazione, secondo il tempo di permanenza con la ragazza, un'ora, mezzora, i quarti d'ora o le "svelte". Il funzionamento delle case chiuse era semplice, le "pensionanti", com'erano chiamate le prostitute, erano reclutate dai "collocatori" e fatte "girare" tra le varie "Case di tolleranza" ogni quindici giorni. Quest'ultima misura si era resa necessaria per evitare che i frequentatori vi si affezionassero troppo. Talvolta, le prostitute erano precedute dalla loro "fama", ed ognuna di loro usava un nome d'arte o un nomignolo che talvolta indicava il loro luogo di provenienza, o la loro specialità a letto.
L'ordine all'interno dei postriboli era mantenuto dalle maîtresse che inoltre verificavano l'igiene del luogo e quella intima delle "pensionanti". In ogni stanza vi era il bidè, il disinfettante e il sapone che si consumava in quantità industriali. Divertente pensare alcune scenette comiche che mi furono raccontate da anziani conoscenti, come il metodo utilizzato da alcune maîtresse per scacciare gli attaccabrighe. Costoro spegnevano le luci e, gridando "O figa o fuga!", spruzzavano il famigerato flit, un insetticida dal caratteristico puzzo che, depositandosi sui vestiti avrebbe permesso di far smascherare da mogli e madri gli uomini in questione.
D'altra parte anche Giacomo Casanova scriveva "Fra le città d'Italia Torino è quella nella quale il bel sesso ha tutti i fascini che l'amore gli può desiderare". In via Principe Tommaso angolo via Galliari in Borgo San Salvario, una palazzina è ancora denominata "casa delle prostitute": La narrazione tradizionale metropolitana, vuole piuttosto inverosimilmente, che alcuni clienti affezionati ad alcune prostitute, particolarmente belle e abili, al loro ritiro dalla professione, le avessero volute ricordare collocando i loro busti come decorazioni sulla facciata del secondo piano del palazzo.
Sempre in via Barborux abitò il famoso letterato Silvio Pellico e una lapide posta nel 1932 al civico 20 ricorda che qui scrisse l'opera "Le mie prigioni", appena uscì dalla carcere-fortezza dello Spielberg a Brno nella Repubblica Ceca nel 1832. Fu arrestato con l'accusa di «carboneria» per aver tramato alle spalle dell'Impero austriaco. Fu condannato a morte, nel 1820, aveva trent'anni. Pellico uscì graziato quindici anni dopo. Andò subito a Torino per raggiungere la casa dei genitori a Palazzo Giriodi di Panisser. Dopo la morte dei genitori, Giulia di Barolo gli offrì un posto di bibliotecario e lo ospitò nel suo palazzo in via delle Orfane.


Fine LIV parte.