Messaggio

Il mio Piemonte: la Panissa e le mondine dell'appennino

Mercoledì 11 Ottobre 2017 10:08
Stampa
panissaMontagne di morbide nuvole bianche sembra di poterci passeggiare sopra. Il sole distende i raggi sulle foglie ormai ingiallite degli alberi. Mi dirigo pigramente verso una vallata della mia provincia, sono curioso di comprendere come è stato possibile organizzare la sagra della Panissa in un paese sperduto degli appennini piemontesi.
La Panissa è un tipico piatto vercellese a base di riso e legumi. Trovo ad attendermi nell'ameno paesino, diverse donne intente a cucinare. Un'anziana signora è seduta su uno sgabello di legno, prona in avanti, a pulire il riso dalle eventuali impurità; mi rivolge un timido saluto senza alzare la testa. È mingherlina, le mani hanno dita lunghe e quasi scarnificate dal tempo e dal duro lavoro nei campi. Indossa un abitino azzurrino con piccoli disegni di fiori, uno di quei vestiti che usava anche mia madre per i lavori di casa.
L'anziana signora indossa un grembiule sempre colorato anzi scolorito dal consumo e dal sole, con due grandi tasche sul davanti. Ai piedi due calze nere in filo infilate in due vecchie ciabatte, che cercano di nascondere le dita rattrappite. Sentitasi osservata si volta verso di me e così posso notare il suo viso lungo, consumato, rugoso, come il lungo naso che sovrasta una piccola bocca. Gli occhi sono grandi, scuri come dovevano essere i suoi capelli, ora bianchi e raccolti in un chignon. I suoi occhi sono talmente espressivi da sembrare voler parlare.
Colgo l'occasione per rivolgerle la parola e scoprire parte della sua vita. Così scopro che la mia nuova conoscenza faceva la mondina (dette anche mondarine o mondariso).
Lei, come tante altre ragazze, lasciava le vallate appenniniche per raggiungere la pianura, dove vi erano le risaie, che scherzosamente chiamavano "mare a quadretti". Da lei scopro che la tradizione di cucinare la "panissa" tra le montagne degli appennini alessandrini arriva proprio grazie alle mondine, che dalla fine di aprile agli inizi di luglio si trasferivano nelle risaie del casalese o del vercellese, talvolta in Lomellina a lavorare. Palmina, questo è il suo nome mi racconta "Io andavo a Robella, vicino a Trino nel vercellese. Eravamo quasi tutte ragazzine, anche di soli quattordici anni. Io ci andavo con le mie sorelle". Si portavano dietro pochi vestiti, pressoché stracci affardellati e la foto del moroso (fidanzato) o del marito e dei figli perché alcune di loro erano già madri. Nelle stazioni ferroviarie d'arrivo, le attendevano dei carri, per lo più tirati da buoi o dai cavalli, che le portavano nelle cascine disseminate tra campi e risaie, per una stagione di lavoro che durava tra i quaranta e i sessanta giorni. Venivano alloggiate in grandi stanzoni dalle volte molto alte, con anche più di venti letti. Nel letto il materasso era composto da un pagliericcio, il cuscino spesso se lo portavano da casa, in fondo ai piedi avevano una cassa di legno che fungeva da armadio, valigia, tavolo e dispensa. Tutt'intorno al letto c'erano dei fili per stendere i panni dando un pochino l'idea di un rifugio o di casa.
Le giovani, che partecipavano alla monda per la prima volta, erano inizialmente emozionate per l'avventura che le aspettava, poi si stancavano molto presto e alle anziane toccava consolarle. Per poter lavorare occorreva avere con se l'atto di nascita e una dichiarazione dell'ufficio comunale di residenza attestante l'immunità da malattie infettive e la buona condizione di salute.
L'anziana signora Palmina continua la sua narrazione: "Ci svegliavamo alle 5 del mattino, ci lavavamo la faccia nell'acqua fredda, talvolta in un mastello collocato fuori dal dormitorio, talvolta nella roggia che scorreva vicino alla cascina. Poi raggiungevamo le risaie a piedi in lunghe file indiane. Qui ci suddividevano in squadre e ci disponevano in file parallele. Eravamo sotto la direzione di una "capa" talvolta un capo. Il lavoro consisteva nel trapianto (trapiantè) delle piantine di riso ove erano nate più fittamente o nell'estirpazione delle erbe infestanti (mundè). Era un lavoro difficile perché occorreva occhio a riconoscerle".
Palmina, senza alzare lo sguardo dal suo lavoro di pulire il riso e sbucciare i fagioli per la "panissa" del giorno dopo, continua il suo racconto stimolata dalle mie domande: "Il nostro lavoro consisteva nel camminare all'indietro (a cul indrè) nelle quadre, in numero differente secondo la grandezza, che era misurata in pertiche. Il lavoro era molto faticoso, passavamo tutta la giornata in risaia, con la schiena piegata e piedi e mani sempre in acqua. Tra le 8 e le 9 del mattino era prevista una breve pausa per la colazione, dove tra le file delle mondine passava un uomo con un barilotto pieno d'acqua da bere, ed a turno bevevamo tutte dallo stesso mestolo, ci dava anche una pagnotta di pane".
Prosegue il racconto che, con difficoltà, ho cercato di memorizzare traducendolo dal dialetto: "Si tornava a mangiare verso mezzogiorno, in cascina se era vicina, se no seduti sull'argine della risaia. Il pasto era quasi sempre riso e fagioli o pasta con la conserva. L'ambiente era malsano, si lavorava nell'acqua tra insetti, tafani, zanzare e ragni che pungendoci potevano procurare anche infezioni. C'erano anche bisce, che le più coraggiose prendevano per la testa, le facevano roteare tre, quattro volte e le lanciavano all'indietro, tra gli urli delle novizie. Qualche volta tra le risaie si trovava qualche nido di uccelli e con il loro uovo si integrava il pasto. L'infilavamo di nascosto e rapidamente nei manicotti delle maniche rimboccate. Stessa fine facevano le rane che stavano nei fossi colmi d'acqua, che poi la sera friggevamo insieme alle uova, magari accompagnato da qualche patata".
Alla mia domanda di come potessero rendere più "leggero" il lavoro, mi racconta: "Cantavamo o recitavamo filastrocche in dialetto popolare. Non potevamo mai alzare la schiena, i nostri attrezzi di lavoro erano solo le mani, che stavano immerse nell'acqua anche dodici ore. La sera, quando il sole calava e rientravamo in cascina, cantavamo tutti insieme. Ci lavavamo con un pezzo di sapone e c'era sempre qualche bracciante che sbirciava e magari ci fischiava dietro se vedeva un tratto di seno scoperto. Devo anche dire che lo facevamo spesso di proposito per sorridere tra di noi e canzonarli un po'. Alla sera dopo il pasto, bastava una fisarmonica a si cantava tutta la sera".
Il racconto continua con le risposte alla mie domande: "Ci vestivamo con abiti molto larghi per lasciare liberi i movimenti. Si indossavano gonne corte e comunque rimboccate intorno alla vita, magliette e camicette con le maniche rimboccate sopra il gomito, calze senza piede ed un largo cappello di paglia. Indossavamo oltre alla biancheria intima anche una flanella (maglietta di lana) che scaldava ma ci proteggeva dagli insetti. Qualcuna aveva i pantaloni da uomo rimboccati sopra le ginocchia. Nelle risaie si andava a piedi nudi. Fuori, invece, ai piedi avevamo degli zoccoli di legno con inchiodato nella suola cuoio o la gomma dei tubulari delle biciclette. Dentro ai quali mettevamo della paglia, sia per tenere il piede caldo che per non farli scappare dai piedi resi scivolosi se bagnati. Qualcuna usava degli stivali che si era portata da casa, ma erano poche quelle che li indossavano, anche perché la sera i piedi erano tutti una piaga".
I suoi racconti mi fanno venire alla mente le immagini di "Riso Amaro", film in bianco e nero girato nel 1949 e diretto da Giuseppe de Santis. Come protagonisti vi erano grandi attori come Vittorio Gassman, Raf Vallone e Silvana Mangano nel ruolo della mondina, Silvana Meliga e Doris Dowling nel ruolo di Francesca, una mondina alla prima esperienza. Questo è un film drammatico del periodo neorealista italiano girato tra le risaie del vercellese.
Mi sovvengono anche diverse canzoni, divenute ormai patrimonio comune, come ballate popolari, che sentivo cantare dalle anziane donne del mio paese. Tra queste sicuramente "Sciur padrun da li beli braghi bianchi", utilizzato come sigla radiofonica dalla trasmissione "Alto gradimento". Oppure "Se otto ore vi sembran poche" un canto popolare delle mondine per rivendicare le otto ore come massimo orario lavorativo giornaliero.
Non posso non cogliere l'occasione per chiedere alla mia nuova amica quanto guadagnava. Inizia a raccontarmi che la paga era diversa se si era del luogo o si veniva da fuori, ma anche in base all'età, più si era giovani ossia fino a 15/16 anni meno si guadagnava. Aggiunge: "Diciamo che la mondina era pagata bene, c'era chi prendeva un po' di più, chi prendeva un po' di meno, questo dipendeva dal datore di lavoro, insomma una mondina esperta poteva portare a casa anche 120 Lire, ogni quaranta giorni, inoltre un sacco di riso di 20/25 Kg, cioè un Kg ogni due o tre giorni di lavoro. Ovviamente quelle donne che si avviavano al mestiere senza passare dal collocamento, guadagnavano di più. Lo scopo di tutti era quello di riuscire a portare a casa tutto il guadagno, senza spenderlo. Il giorno più bello era quello della paga, quando il padrone ci chiamava una ad una e ci dava i soldi, che io tenevo nascosti in un sacchettino di stoffa appuntato con uno spillo da balia nel reggiseno. Purtroppo erano frequenti i furti del denaro. Non eravamo molto amati dalle contadine locali, sia perché avevano paura che i loro uomini si innamorassero di noi, sia perché il contratto di lavoro era a noi più favorevole, quando e se veniva applicato. Inoltre le mondine locali andavano piano a lavorare perché volevano prolungare le giornate di lavoro e di paga, mentre noi foreste andavamo più veloci perché volevamo tornare a casa".
Le chiedo di spiegarmi meglio cosa consisteva questa differenza. "Il padrone era obbligato a darci da mangiare. Alle forestiere doveva dare da mangiare giornalmente una pagnotta da ½ Kg di pane bianco, tre etti di riso con fagioli oppure patate e conserva di pomodoro, con una bella grattugiata di formaggio e un ½ litro di latte, inoltre settimanalmente doveva darci 150 gr di formaggio molle, ½ litro di vino e la marmellata. Le locali avevano diritto solo alla razione giornaliera e in quantità dimezzata perché la sera cucinavano a casa loro. In cascina c'era sempre un cuoco che faceva da mangiare e puliva il dormitorio".
Ormai la mia "Panissa" è stata servita nei piatti, l'accompagnerò con un buon bicchiere di vino rosso. Mangiandolo, avrà un gusto sicuramente diverso ora che sarà la storia di questo piatto. Sicuramente questa tradizione portata dal "mare a quadretti" delle risaie della pianura agli sperduti borghi degli appennini ha un sapore più ricco, grazie a Palmina, che con un sorriso sdentato e gli occhi colmi di gratitudine mi augura "Buon appetito".

PANISSA ALLA LUNASSESE (Val Curone)
In una grande e capace pentola mettere a bollire in abbondante acqua salata tre cucchiai d'olio, un osso spugnoso, 50 gr. di lardo pestato, un dado ed alcune foglie di basilico. Aggiungere a bollitura ottenuta le verdure quali le verze, porro e i legumi desiderati quali fagioli borlotti, fagiolane, ceci (legumi che alla sera precedente sono da mettere in ammollo). In una padella di rame a bordi alti mettere olio, lardo pestato, burro, un dado, tre spicchi d'aglio a lamelle sottili e una cipolla precedentemente tritata. Soffriggere per alcuni minuti ed aggiungere il concentrato di pomodoro. A questo punto aggiungere al soffritto il riso, mescolare bene e farlo tostare per due, tre minuti. Aggiungere poi il brodo preparato a parte con verdure e legumi. Mescolare bene e in profondità per alcuni minuti e poi non toccare più il riso, continuando la cottura a fuoco lento. Se il brodo risulta scarso aggiungere ancora brodo. A fine cottura,con il brodo asciugato, condire con parmigiano grattugiato e mescolare bene. Ricordarsi che la panissa non è una minestra ne un risotto.