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Il mio Piemonte: Barolo

Mercoledì 21 Marzo 2018 09:09
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BaroloL'autunno è quella stagione in cui non sai mai quanto coprirti; esci di casa battendo i denti dal freddo e torni a casa semisvestito, soprattutto se l'estate è stata generosa con il sole.
Oggi il fresco della mattinata tenta di rubare spazio e calore al sole che ormai è alto. Il volo degli uccelli in cielo, sembra disegnato su una lavagna da quanto è limpido.
Con Matteo mi reco nelle Langhe, viaggio che faccio tutti gli anni per acquistare del buon vino Nebbiolo a Castiglione Falletto.
Il vino Nebbiolo, di cui faccio dono anche a persone importanti della mia vita, per le festività natalizie è particolarmente allettante se prodotto nelle Langhe. I viticoltori mi hanno spiegato che il terreno migliore per il suo vitigno, sono quelle esposte a mezzogiorno e coltivato in colline tra i 200 e 450 m. s.l.m. È importante anche il tipo di terreno, come quello delle Langhe, ricco di sedimenti calcarei e marne, capaci di far sviluppare aromi particolari, grazie ad un complesso gioco di equilibri tra acidità e tannini.
L'uva nebbiolo è tipica del Piemonte, benché non sia la più coltivata, ma certamente è tra le più celebrate a partire dall'epoca romana.
Il suo nome è forse riconducibile alla nebbia, fenomeno meteorologico molto frequente in Piemonte in autunno, ed essendo la raccolta dell'uva Nebbiolo molto tardiva, rimane per molto tempo immersa nella nebbia.
Ci aggiriamo per la cantina ad assaggiare i vari tipi di Nebbiolo, in quanto si hanno nell'albese quattro sottovarietà: il Michet, così denominato per la forma compatta del grappolo che ricorda una pagnotta di pane; il Lampia dal grappolo più grande e allungato; il Bolla dal nome del selezionatore di Santa Maria de la Morra; l'ormai scomparso Rosè, abbandonato per la sua scarsa resa e soprattutto per il colore rosato che lo rendeva meno commerciabile.
Il Nebbiolo delle Langhe si distingue al palato da quello coltivato nel Roero che è più morbido e dal sapore più delicato. Il vitigno del Nebbiolo è comunemente coltivato anche in altre zone del Piemonte e della Lombardia. Infatti l'uva di Nebbiolo coltivata nel canavese è detta Picoutener o anche Carema se coltivato nell'omonima zona. Mentre nel vercellese si produce nella zona di Gattinara dello Spanna o in Valtellina prende il nome di Chiavennasca.
Come sempre, ho riempito il bagaglio di questo nettare degli Dei.
Dopo che con Matteo abbiamo fatto assaggi e acquisti ci dirigiamo verso il paese di Barolo. Ci inerpichiamo in auto sui tornanti che ci conducono all'antico paese. Il paesaggio è da cartolina quanto è lineare e bello, con le sue cascine in testa alle vigne che discendono con i suoi filari in linee diritte che si presentano come disegni geometrici. Gli alberi posti tra i filari delle viti, sembrano grandi ufficiali che dispongono ordini ai tralci della vite. Non vi è segno di abbandono ne di erbe infestanti. Dopo ogni curva il panorama è sempre meravigliosamente diverso ma uguale con i suoi lunghi filari.
Parcheggiamo l'auto in piazza Colbert. Ci guardiamo intorno, tutto il borgo pare parte integrante di una scenografia che vede le vigne fare da cornice. Il paese si trova adagiato su un piccolo altopiano a forma triangolare, quasi uno sperone. Ci aggiriamo intorno alla piazza, su tre lati si ergono case abbarbicate su dolci rilievi, sull'ultima si apre su dolci colline Dopo aver dato un sbirciata ai pannelli turistici descrittivi del borgo, ci arrampichiamo su una comoda e larga scala che ci conduce in via Roma; la via principale di Barolo.
Non ci sono indicazioni precise sulla storia antica del paese, forse la zona era abitata da tribù celtico ligure. Di certo si sa che durante il periodo di dominio longobardo, il territorio dipendeva dal Gastaldo di Diano e poi alla contea di Alba. Successivamente entrò nella marca di Torino. Anche il suo toponimo è di difficile individuazione, quello più accreditato o quanto meno, che ritengo più verosimile è dato dalla connessione con il gallico barro, ossia cima con il suffisso –ius, di cui "luogo della piccola cima". Altre lo farebbero derivare da barros ossia sterpeto, cosa assai difficile ed improbabile vista la sua collocazione, come ancor più improbabile è l'ipotesi che la lega a San Barolo martire. Di certo si sa che nel 1200, il paese viene citato nel Rigestum Comunis Albe con il nome di Villa Baragly, ed ancora nel 1202 come Barrolius e nel 1383 come Barolus e nel XVII secolo lo troviamo nelle due forme di Barrolo e di Barollo. Durante il periodo delle scorrerie saracene, che durarono quasi un secolo, Berengario I, che fu re d'Italia e imperatore, autorizzò l'erezione di una roccaforte. Nel 1250, il luogo viene infeudato ad una famiglia di importanti banchieri: i Falletti. Questa famiglia giunse a controllare decine di feudi in Piemonte. Nel 1468, Barolo entrò a far parte dello Stato del Monferrato, passato poi nel 1631 ai Savoia. Già eretta in contea nel XVII secolo, nel 1730 divenne marchesato. Da allora la vite e il vino sono la prima fonte di reddito, tanto che possiamo trovare nel 1674 un bando campestre in cui si comminavano pesanti pene a chi danneggiava la coltivazione o rubava l'uva.
Il primo marchese, sempre della dinastia Falletti, fu Gerolamo IV che sposo nel 1695, Elena Matilde Provana di Druent. Il padre di costei, non era un personaggio molto amato, capriccioso e dal carattere imperioso, sempre implicato in intrighi di corte a Torino dove abitava. Costui, dopo cinque anni dal matrimonio della figlia, la rinchiude nel proprio palazzo torinese, impedendole di rivedere il marito e i figli. Tale capriccio di Monsù Druent, pare sia dovuto a discussioni con il genero sulla dote. Separata dal marito e dai figli, la povera donna si suicidò lanciandosi dalla finestra del palazzo. Si narra che ancora oggi il suo fantasma, vaghi nell'androne del palazzo in attesa del congiunto e dei figli. Quando morì Monsù Druen, il palazzo passo ai marchesi Falletti, da allora il palazzo torinese è conosciuto come palazzo Barolo.
L'ultimo marchese di Barolo, fu Carlo Tancredi Falletti, uomo di straordinaria intelligenza, che sposò Juliette Colbert, francese e pronipote Jean-Baptiste Colbert, già potente ministro delle finanze, del Re Sole, Luigi XIV.
Il marchese Carlo Ippolito Ernesto Tancredi Maria Falletti di Barolo fu Sindaco di Torino dal 1826 al 1827. Durante l'epidemia di colera che colpì Torino nel 1835, il marchese, che era stato decurione della città, dette la sua opera assidua per organizzare ospedali e infermerie dove ricoverare i colpiti. Forse segnato dalla malattia la morte colse il marchese a Chiari, nel Bresciano, il 4 settembre 1838.
L'ultimo tratto della dinastia Falletti fu condotto dalla marchesa Juliette, ormai chiamata Giulia, che morì a Torino nel 1864 e che scrisse un importante pagina di storia non solo nelle opere filantropiche ma anche nel vino. Raggiungo via Roma, percorriamo le antiche strade, tra casette basse dai mattoni a vista e con i davanzali decorati con vasi fioriti. Raggiungiamo così l'accesso del castello. Nella sottostante piazzetta c'è un curioso ma interessante museo dedicato ai cavatappi.
Il museo conserva centinaia di cavatappi, a partire da modelli settecenteschi.
Superata l'antica porta d'accesso al castello, dove ancora oggi sono visibili sia i merli ghibellini che le antiche strutture murarie che permettevano ad un ponte levatoio di poter difendere il castello, ormai scomparso, arriviamo sulla corte e piazzetta principale. Su questo spiazzo che si apre in cima ad una breve salita vi è l'ingresso vero e proprio del maniero, che ha assunto nei secoli fattezze di residenza nobiliare, perdendo gli antiche scopi difensivi. Comunque ha mantenuto attraverso la sua mole, la caratteristica di struttura dominatrice sul borgo intero.
Sulla piazzetta si prospetta la chiesa dedicata a San Donato, la casa parrocchiale e l'antico oratorio.
Il castello fu ripetutamente ristrutturato dalla famiglia Falletti che ne fece luogo di dimora. Fu distrutto e saccheggiato ripetutamente nella sua storia; come quella del 1544 ad opera del governatore francese di Cherasco. Del più antico castello rimane solo il mastio. Il maniero diede ospitalità a tante persone famose, ma sicuramente il più popolare fu Silvio Pellico, che fu ospite della marchesa Giulia. Costui fu presentato da Cesare Balbo, politico e scrittore e Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna, alla marchesa. Infatti, Silvio Pellico nel 1830, graziato di 5 anni, usciva dal carcere dello Spielberg dove aveva scontato 10 anni di pena; arrestato dagli Austriaci nel 1820, come Carbonaro, era stato condannato a morte, ma poi la pena era stata commutata in 15 anni di carcere duro. Divenne della famiglia Falletti bibliotecario e amico fidato, alternando la sua presenza tra Torino e Barolo sia in questo castello che in quello della "Volta", dove faceva lunghe passeggiate con la marchesa. Nel 1970, grazie ad una sottoscrizione popolare, il castello diviene proprietà comunale ed attualmente ospita l'enoteca regionale.
La chiesa parrocchiale che prospetta il suo ingresso, proprio davanti al castello, risale alla prima metà del Settecento, ricostruita su un più vecchio edificio religioso già ristrutturato dai Falletti nel Cinquecento a cappella gentilizia del castello. La chiesa ha un bel protiro, l'interno è a tre navate con cupola ottagonale e sei altari laterali. Davanti all'altare maggiore vi hanno trovato sepoltura fino al XVIII secolo i marchesi Falletti. Di fianco alla chiesa parrocchiale si erge l'oratorio della Confraternita di Sant'Agostino del XVI-XVII secolo.
Dopo aver preso un caffè in un bel e moderno bar-enoteca, rientriamo verso l'antico borgo, tra antiche case, caratteristiche viuzze e angoli incantevoli. Mentre passeggiamo senza meta, sono attratto dalla storia del borgo e del vino che porta il suo nome. Non posso non pensare anche a leggende e storie che caratterizzano questo antico centro abitato, come tutti gli antichi centri storici piemontesi.
Allora il pensiero corre al già citato castello della "Volta". Questo castello si trova a cavallo della dorsale che conduce da Novello a La Morra. Il castello fu costruito nel XII secolo da Manfredo di Saluzzo, entrato nel feudo di Barolo, passò alla famiglia Falletti. Un antica leggenda, vuole che il castellano vi conducesse una vita sregolata, tra festini, bagordi e orge. Una notte, dopo un festino, il pavimento della sala degli specchi crollò e fu inghiottito dagli inferi insieme a tutti i suoi ospiti peccatori. Le loro anime ancora oggi vagano sotto forme di fiammelle tra le sale del castello, dove si odono gemiti e grida. Il crollo della volta del salone, avvenuto all'inizio del XIV secolo diede il nome al castello.
Un'altra leggenda ha come protagonista la masca Micilina, fattucchiera dispettosa, ricordata come maschera carnevalesca.
Ci soffermiamo a guardare le vetrine di varie negozi enoteche, ricordandoci come tutto ciò che è esposto evochi il territorio circostante. Anche il vino Barolo, fatto con uve Nebbiolo, ha una storia straordinaria. Questo vino che per le caratteristiche ambientali tende al dolciastro, era di un gusto molto distante dai vini francesi in voga nel XIX secolo. Verso la metà del 1800, la marchesa Giulia chiese al celebre enologo francese Louis Oudart di migliorare i vini della sua cantina. Dopo un indagine sui metodi di vinificazione, l'enologo comprese che la fermentazione del Nebbiolo non giungeva mai al termine, questo era dovuto alle temperature tipiche del periodo della vendemmia. Ciò rendeva instabile e dolciastro il vino. La modifica del processo di vinificazione con il controllo della temperatura di fermentazione, l'utilizzo di botti meno vecchie, l'affinamento in bottiglia ne hanno reso il "re dei vini" o "vino dei re". il grande nome del vino Barolo è proprio dovuto alla marchesa Falletti che omaggiò di tali vini le più importanti tavole della nobiltà dell'epoca, compresa quella del re Carlo Alberto.
Rientriamo verso l'autovettura, lasciamo questo piccolo e caratteristico borgo piemontese, scrigno di cultura che ha saputo raccogliere intorno alle vestigia di un tempo le tradizioni e la cultura del vino, vero gioiello del borgo. Le colline che lo circondano sono proprio miniere a cielo aperto e con le sapienti mani dell'agricoltore gli acini dell'uva sono trattati con la stessa cura e gentilezza che un intagliatore di diamanti usa per i suoi gioielli.