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A zonzo con il calessino (XXXII parte)

Venerdì 01 Maggio 2020 07:31
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CalessinoCon il Calessino ormai si corre in direzione del principato di Lucedio, nella campagna fra Trino e Vercelli. Attualmente il "Principato di Lucedio" è una grande azienda agricola che ingloba i resti dell'antica Abbazia: la Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Assunta, il Campanile, la Chiesa del Popolo, la Sala Capitolare, il Chiostro e il Refettorio. Anticamente aveva anche un mulino, ora scomparso.
Fu fondata nel 1123 dai monaci Cistercensi provenienti dalla Borgogna, che bonificarono il territorio che era in gran parte incolto a causa della persistenza di ampie zone paludose e di foreste, introducendo per primi in Italia la coltivazione del riso verso la metà del 1400.
Il territorio a nord di Trino, quasi a ridosso del Po, fu donato ai Cistercensi dal Marchese Rainero del Monferrato con i cugini Ardizzone e Bernardo, donò alcuni beni, tra cui l'area su cui sorge il cenobio, al "Monasterio Sanctae Dei Genitricis et Virginis Mariae sito in loco Lucedii […]" concedendo altresì l'uso del legname per la costruzione del monastero, anche con lo scopo di poter meglio controllare una zona di confine con il sempre più potente Comune di Vercelli.
I monaci cistercensi, provenienti dal monastero francese di La Ferté, fondarono nel 1123 l'Abbazia di Lucedio.
Il toponimo è attestato fin dal 904; pare inoltre che vi fosse già in loco un insediamento romano. Infatti già in precedenza, in epoca romana le aree incolte furono distribuite ai veterani militari che iniziarono in questo modo, tra I e II secolo d.C., i primi tentativi di bonifica e di controllo delle acque, soprattutto nelle zone più vicine ai centri urbani e alle grandi vie di comunicazione.
I primi significativi dissodamenti si effettuarono sul finire del X secolo su aree più vaste nella campagna vercellese: un documento attesta una donazione di terreni, avvenuta nel 961, in favore delle canoniche di Sant'Eusebio e Santa Maria di Vercelli.
Ma solo dopo circa due secoli verrà iniziata una vera e propria opera di bonifica dell'area in questione, ad opera dei monaci cistercensi provenienti dalla Francia, che si stabilirono nei pressi della selva di Lucedio.
La nuova fondazione sorse sul territorio dell'antica corte Auriola, un vasto feudo che l'Imperatore carolingio Lotario, donò alla Signoria fondiaria degli Aleramici, come viene riportato in un diploma datato 933.
Il marchese Ranieri iniziò con la donazione di due appezzamenti nella vicina zona di Montarolo; successivamente l'Abbazia di Lucedio venne dotata di prati, vigne e boschi nei pressi di Gaiano, sulle colline del Monferrato.
Le sei grange più vicine all'Abbazia, che formano ancora oggi il sistema lucediese, furono tutte edificate dai monaci cistercensi entro la fine del XII secolo: Montarucco, Montarolo, Castel Merlino, Leri, Ramezzana e la grangia della Darola, probabilmente nel luogo in cui sorse la corte regia Auriola.
I primi monaci iniziarono una capillare opera di disboscamento della vicina foresta e di bonifica dei terreni circostanti l'Abbazia, incominciando a coltivare grano, orzo, segale, panico, sorgo, crearono canali per far scorrere l'acqua, dissodarono la brughiera ed iniziando a coltivare il riso e diffondendo la risicoltura in tutto il vercellese e casalese.
Furono proprio i cistercensi a creare un nuovo modello di sviluppo agricolo, attraverso le "grange" in cui a capo vi era un "converso", cioè un laico che, dopo aver fatto voto di povertà e dopo aver donato i propri beni al monastero, diventava membro della comunità monastica. Con il termine di Grangia da granica ovvero deposito di grano, veniva indicato un insediamento rurale produttivo.
La sua particolare posizione geografica lungo la Via Francigena fu strategica anche per lo sviluppo socio economico dell'Abbazia, che divenne un fiorente centro di potere politico ed economico.
I primi segni della crisi dell'Abbazia, si possono far risalire al Quattrocento, quando gli abati di quel periodo si trovarono costretti a chiedere denaro in prestito, impegnando anche beni dell'Abbazia, e affittando alcune delle loro proprietà per poter far fronte alle spese di gestione.
La crisi economica che investì Lucedio, come tante altre realtà monastiche, fu dovuta soprattutto all'aumento demografico che si verificò nel corso del XIV secolo in Italia e che comportò una generale carenza dei beni di sostentamento. Inoltre la Chiesa autorizzo la creazione di ordini religiosi, ciò porto come conseguenza la diminuzione del numero dei monaci e dei conversi nei cistercensi, figure fondamentali per la gestione delle grange.
Sull'onda anche di tali profonde trasformazioni, nel 1457, l'Abbazia di Lucedio venne trasformata in commenda da Papa Callisto III e venne affidata, con diritto di patronato, a Teodoro Paleologo, protonotario apostolico, figlio del Marchese del Monferrato Giovanni Giacomo Paleologo e di Giovanna di Savoia, sorella di Amedeo VIII.
I marchesi di Monferrato vi mantennero ancora il patronato sull'Abbazia, anche se la commenda fu
gestita da altre famiglie. Ciò soprattutto perché venne meno l'autonomia dell'Abbazia rispetto a nobiltà e curia, che imponevano la riscossione di rendite e pensioni.
Il Cinquecento non fu un periodo rigoglioso per l'Abbazia, da fine XV secolo, quando proprietaria dell'Abbazia di Lucedio era la nobile famiglia dei Gonzaga, le grange vennero affittate dietro pagamento di un canone in denaro. In quel periodo, i monaci cistercensi erano ancora presenti nel monastero, ma senza alcun potere in ambito amministrativo. Nel 1607, Papa Paolo V cercò di ridare voce ai pochi religiosi rimasti, comprendendo l'Abbazia di Lucedio nella Congregazione cistercense di Lombardia di San Bernardo, ma il provvedimento fu scarsamente efficace per la rivitalizzazione dell'impianto monastico. Alla fine del Seicento i monaci erano rimasti soltanto dieci. Verso la fine del Settecento, per ordine del Papa Pio VI, Lucedio fu secolarizzata e i beni furono dati in commenda all'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Nel 1776 i monaci rimanenti furono trasferiti a Castelnuovo Scrivia, nel collegio soppresso dei Gesuiti. Lucedio e le sue grange formavano un sistema agricolo unitario ed autosufficiente per le proprie esigenze, ma ora producevano soprattutto per il mercato. L'azienda agricola era ormai un borgo con magazzini, officine di ogni tipo di ricambi per gli attrezzi agricoli, una farmacia e un emporio o spaccio.
Sul territorio esistevano tre Parrocchie, quelle di Leri di Montarolo e di Lucedio. Le natalità nell'area delle grange lucediese era elevata grazie alle circa 242 famiglie residenti. Alto però era il livello di sfruttamento dei braccianti agricoli, tanto che si registrò, nel 1796, proprio nelle grange luce diesi, il primo sciopero di contadini, che chiedevano un aumento della paga.
In seguito all'invasione francese del 1798, i beni di Lucedio passarono sotto il controllo del governo napoleonico. Nello stesso anno in cui Napoleone I Bonaparte proclamò la nascita del Regno d'Italia, e Lucedio e le sue sei grange più vicine furono assegnate a suo cognato, il Principe Camillo Borghese, allora Governatore Generale del Piemonte, mentre le grange separate di Gazzo, Pobietto e Montonero entrarono nel Demanio della Corona Imperiale.
Dopo la caduta dell'Impero napoleonico, restaurata la Monarchia con Vittorio Emanuele I, le tre grange separate passarono al Demanio delle Regie Finanze; mentre le sette grange di proprietà del Principe Borghese furono, da quest'ultimo, vendute nel 1818 ad una società composta dal Marchese Michele Giuseppe Benso di Cavour, dal Marchese Carlo Giovanni Gozzani di San Giorgio e da Luigi Festa.
Quando la società si sciolse, nel 1822, i beni vennero suddivisi tra i tre nuovi proprietari, che vi svilupparono delle grandi aziende agricole basate, per la prima volta, sulla conduzione diretta e privata. Al marchese Gozzani di San Giorgio, dopo lo scioglimento della società, toccò la grangia di Lucedio e Montarolo che lasciò in eredità al nipote Felice Carlo che, nel 1861, per debiti di gioco dovette cederla al genovese Raffaele de Ferrari, duca di Galliera. Con regio decreto del 1875, Vittorio Emanuele II insignì il duca del titolo di principe di Lucedio per i servizi resi alla patria. Il figlio del duca De Ferrari rinunciò al titolo e donò la proprietà al cugino, il marchese Andrea Carrega Bertolini, cui il Re concesse di portare il titolo di principe di Lucedio.
L'attuale denominazione di "Principato di Lucedio", che appare ancora adesso sul portale d'accesso della tenuta, deriva dagli avvenimenti di questo periodo. Curioso sapere che a Genova la stazione ferroviaria di "Principe" si chiama per esteso "Principe di Lucedio".
Nel 1937 il conte Paolo Cavalli di Olivola, discendente di una figlia di Felice Carlo Gozzani, riacquistò la proprietà. I suoi discendenti sono ancora i legittimi proprietari.
Purtroppo non possiamo accedere all'interno della Grangia, in quanto il giorno di visite è la domenica e comunque su prenotazione. Dobbiamo pertanto osservare la tenuta del Principato di Lucedio dall'esterno.
Un muretto in laterizio corre intorno a tutta la tenuta, un alto portale, sempre in mattoni a vista, reca la scritta "Principato di Lucedio". Dal cancello possiamo comunque ammirare a sinistra, la corte del Principato, mentre a destra vi è la Chiesa del Popolo, mentre alle spalle c'è la chiesa Santa Maria di Lucedio.
La prima Chiesa si presenta come un bel edificio in stile Barocco, con mattoni a vista e dai volumi mossi, con leggere lesene che ne decorano i due ordini in cui è suddivisa la facciata. Un ampia finestra rettangolare nel secondo ordine permetteva alla luce di accedervi. Un grande frontone triangolare conclude quello che un tempo era una chiesa assai frequentata da parte della popolazione, ora adibito a magazzeno. Sul retro un bel campanile in laterizio suonava un tempo ai popolani le chiamate agli uffici religiosi. Infatti la prima chiesa che si incontra entrando dal portone; è detta "del popolo" in quanto adoperata per celebrare le funzioni religiose per la popolazione. Chiesa che divenne parrocchiale dedicata al Beato Oglerio.
Il beato Oglerio era nato Trino nel 1136, fu un sacerdote e monaco cistercense. Nel 1205 fu nominato abate dell'Aabbazia cistercense di Santa Maria di Lucedio e fu seguace di San Bernardo di Chiaravalle. Fu un abate intransigente nel far rispettare dai monaci un irreprensibile condotta di vita, obbedienza, fraterna carità e meditazione. Fu chiamato a fare da mediatore in numerose controversie del suo tempo in città come Tortona, Genova, Milano, Casale Monferrato e Vercelli. Nel martirologio cistercense è ricordato come "terrore degli spiriti immondi", anche per ricordare il suo infaticabile apostolato come operatore di pace. Infatti l'iconografia del Beato, cita l'episodio secondo cui avrebbe allontanato da una città ligure alcuni spiriti maligni. Ormai anziano, morì il 10 settembre 1214 a Lucedio già in fama di santo tra il popolo e nel suo Ordine.
Il corpo fu deposto prima nel chiostro del monastero, poi traslato sotto l'altare maggiore. Gli fu dedicato un altare nel 1577, divenendo titolare della locale parrocchia. Nel 1786 i cistercensi, trasferendosi, le portarono a Castelnuovo Scrivia. I trinesi riebbero le reliquie del Beato il 9 settembre 1792, quando furono traslate nella Chiesa parrocchiale di San Bartolomeo di Trino.
Più in lontananza possiamo vedere la Chiesa di Santa Maria, che invece restava ai monaci per le loro preghiere. Sul suo fianco sinistro è appoggiata il lungo edificio un tempo riservato ai conversi, con proprio chiostro e sala dei conversi, in stile Gotico lombardo che non potremo ammirare.
La Chiesa abbaziale fu rifatta nel 1766 ed il suo campanile ottagonale poggia su base quadrata romanica. Il campanile della Chiesa abbaziale,databile XII secolo, ha quattro piani delimitati da una cornice con archetti, i piani inferiori con monofore e l'ultimo con belle bifore, gli ultimi due piani hanno gli archi delle finestre abbelliti da una cornice bicolore. Mi si racconta che nel locale alla base del campanile, alla destra dell'altare, è collocata la fronte del sarcofago marmoreo di "Mettia Valeriana", del II sec. d.C. La lastra, che raffigura due fanciulli che sorreggono la tavola incorniciata con l'iscrizione su tre righe. Questa lastra fu riutilizzata nell'Alto Medioevo come copertura tombale con l'inserimento di due maniglioni in ferro.
La Chiesa presenta una bella facciata barocca, anticipata da un bel sagrato in ciotoli di fiume bianchi e grigi. Alcuni gradini permettono l'accesso ad un portichetto colonnato di forma tondeggiante che funge da vestibolo. La facciata è tripartita da eleganti lesene, le parti laterali sono convesse. Un marcapiano eleva in altezza la chiesa che trova nel suo centro una grande finestra incorniciata da volute. Chiude in altezza la chiesa un frontone, è di tipo semicircolare spezzato. Nella Chiesa abbaziale trovarono sepoltura, in epoca medievale diversi esponenti della famiglia marchionale del Monferrato, come Bonifacio II, morto nel 1253, il figlio Guglielmo VII morto nel 1292. Poi ancora Giovanni I, morto nel 1305 e Teodoro I Paleologo nel 1338. Vi fu sepolto anche Giacomo Vialardi Carnario, Vescovo di Vercelli tra il 1236 ed il 1241.
Sul cortile in ghiaia si affacciano gli edifici in pietra e mattoni a vista oggi come allora destinati, vuoi ad abitazioni, vuoi a depositi agricoli o fienili. Un eventuale visita permette di vedere anche,la Sala Capitolare, il Chiostro, il Refettorio e la Galleria.
Ma come tutte le costruzioni antiche, soprattutto se medievali che hanno visto diverse vicissitudini, vi nascono diverse leggende. La zona tra le nebbie, i boschi, la presenza di acqua accresce anche quelle legate alla presenza del "maligno".
Con Gian ne ripercorro qualcuna, mentre ci rechiamo a vedere un'altra chiesetta, a poca distanza da Lucedio, che ha una storia veramente demoniaca. Il toponimo Lucedio sembra derivare da "Luce di Dio" ma ovviamente i ricercatori dell'occulto lo interpretano "Luce" come Lucifero, mitico portatore di luce che fu cacciato dalle sfere celeste è trasmutato nel temuto demonio. Magari la radice in "Lucus" potrebbe semplicemente derivare dalla rappresentazione del territorio in quanto il territorio era una palude immersa nella boscaglia.
Sono molteplici i racconti sulla presenza del demonio. Si racconta che degli incantatori operarono della magia nera, ma persero il controllo ed il demone vagando per le terre circostanti, Lucedio, si impossessò delle menti dei monaci. Essi, ormai votati al demonio, diedero inizio ad un periodo di soprusi, abusando del potere spirituale e temporale, del quale erano investiti . La possessione demoniaca dell'Abbazia e dei suoi monaci durò molti anni, fintanto che il Papa mandò in gran segreto un esorcista da Roma, che, dopo aver affrontato e vinto il maligno presso il cimitero di Darola, lo rinchiuse in un sigillo, nascosto poi nelle cripte dell'Abbazia, e fece deporre delle mummie di monaci rimasti innocenti, seduti in trono tutt'intorno al sigillo, su dei seggi disposti a cerchio, a protezione della presenza malvagia.
Un altra vuole che all'interno della Sala Capitolare vi sia una "colonna che piange", a causa degli orrori di cui sarebbe stata silente testimone delle terribili punizioni inflitte alla povera gente. In effetti si dice che la colonna, che è in materiale poroso, a differenza delle altre, trasuda l'umidità che in precedenza ha assorbito nei periodi più freddi. Un'altra leggenda, riguarda il sarcofago marmoreo di "Mettia Valeriana" che la tradizione popolare ha sempre considerato il sepolcro della regina di Patmos. Si narra che ella, per sfuggire alle attenzioni incestuose del padre, fuggì nel bosco fuori Lucedio. Il padre la rincorse ed avvicinandosi sempre di più, con un gesto disperato, raccolse un bastone e tratteggiò sul terreno una riga che si trasformò in un profondo corso d'acqua che le offrì protezione impedendo allo sciagurato genitore di raggiungerla.
Il nome di questa regina Patmos pare derivi da un'altra leggenda legata alla IV crociata, nel 1204, quando l'Imperatore Alessio III e l'Imperatrice Eufrosina, furono catturati dal comandante dell'esercito latino Bonifacio, marchese del Monferrato. I prigionieri furono scortati e condotti proprio a Lucedio, dove si vuole che Eufrosina impazzì e in seguito morì. Eufrosina sarebbe la mitica figura della regina di Patmos.
Altre leggendarie teorie vogliono che la regina sia sepolta a Montarolo e che, l'attuale Santuario della Madonna delle Vigne, sia stato costruito sui resti della cappella funebre della donna per volere dell'Abate commendatario. Infatti è proprio Madonne delle Vigne che, lasciato il calessino sulla strada, stiamo raggiungendo facendoci strada tra sterpi e rovi.
Il Santuario di Madonna delle Vigne o meglio Santuario del Santissimo nome di Maria, sorge su un colle boscoso, circondato da risaie, sulla strada che porta a Trino Vercellese.
Questa era una graziosa chiesetta edificata nel 1696 ed ormai è sconsacrata. La chiesetta ha forma ottagonale, che s'innalza molto in alto con due marcapiani che le corrono tutt'intorno. Un lanternino chiude la cupola ottagonale. L'ingresso, ormai devastato da vandali è porticato, chiaramente costruito in un tempo successivo alla pianta ottagonale.
Superate l'accesso ci troviamo in un ampio locale, ormai ampiamente deteriorato, come dimostrano gli stucchi e le decorazioni. Immondizie e segni di vandali e anche i segni dele frequentazioni dei satanisti sono ovunque.
Il coro, che è evidentemente molto più antico dell'ottagono antistante, porta sotto le cornici rimasugli di fregi in stucco formati da foglie di vite. Anche l'arco trionfale si nota fosse ornato di stucchi raffiguranti tralci con grappoli. Desolante la visione di ciò che rimane dell'altare, spoglio, devastato e imbrattato.
Tra le decorazioni che si sono conservate all'interno dell'ex Santuario, proprio sopra al portone d'ingresso, mi fa osservare Gian, vi è un singolare affresco. Vi è rappresentato un organo a canne, uno stemma sotto ad una corona reale con due leoni stilizzati che reggono su un finto palco, ed al centro di questo disegno è raffigurato un pentagramma. Sui righi musicali sono ancora parzialmente leggibili le note.
La leggenda legata a questo pentagramma e alle sue note, vuole che questo brano che pochi conoscono, sarebbe un motivo musicale capace di respingere la presenza demoniaca imprigionata nelle cripta di Lucedio ma, se suonato al contrario, ne consentirebbe la liberazione. Sempre la leggenda vuole che fosse stato proprio un monaco di Lucedio a comporre questa musica dal grande potere di trattenere o liberare il demonio. Ovviamente oltre a satanisti provenienti da tutta Europa, lo spartito ha portato anche diversi studiosi di musica antica a studiarlo.
Addirittura nel 2010 l'ex Santuario diventa scenario di un servizio del programma televisivo di Italia Uno "Mistero", di Marco Berry, con protagonista proprio il pentagramma e la sua musica scritta.
Lasciamo "lo spartito del diavolo" nella Chiesa della Madonna delle Vigne e riprendiamo i nostri calessini per correre verso Vercelli.



Fine XXXII parte.