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Il mio Piemonte: Acceglio

Sabato 24 Settembre 2022 08:17
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AcceglioAttraverso gli antichi caratteristici borghi, fermandomi ad ammirare spettacolari paesaggi, strette gole e ampi campi che fanno dell'alta Valle Maira un ambiente da libro di favole. Dopo un lungo viaggio raggiungo Acceglio, l'ultimo comune della Valle Maira prima che le vette delle Alpi Cozie ci separino dalla Francia come uno spartiacque.
Acceglio è composto da più borgate, il cui capoluogo prende il nome di La Villa. Il torrente Maira divide in due l'abitato che tra capoluogo e frazione non arriva a 200 residenti.
Secondo gli esperti il toponimo deriverebbe dal latino ad Cilium o da forme preceltiche come oscelum od ocelum, il cui significato dovrebbe essere "posto in alto". Lo troviamo citato con il nome di Cilio in un documento del 1028 nell'elenco delle terre donate della Valle Magrana dal marchese di Susa, Olderico Manfredi al monastero di Caramagna.
Il territorio, entrato a far parte nel XIII secolo dei possedimenti del marchese di Saluzzo, è integrato nella Comunità della Valle Macra superiore. Una comunità che, pur riconoscendo la protezione del marchese a cui pagava regolarmente il loro tributo, godeva di franchigie ed alcune libertà.
Successivamente l'intero marchesato, e con esso Acceglio, entrò sotto il dominio dei francesi, diventando una vallata in cui l'idea calvinista divenne presto una religione professata.
Con il pretesto di contrastare l'eresia, il duca Carlo Emanuele di Savoia occupò la vallata, costringendo altresì la popolazione ad abiurare la professione di fede che era arrivata dalla Francia, e agli irriducibili non rimase che l'esilio. Successivamente il Duca infeudò il territorio alla famiglia Taffini di Savigliano.
Inutile dire che i maggiori scambi commerciali, in frode ai dazi, avvenivano con il territorio francese. Il territorio non passò indenne nemmeno durante le guerre che si succedettero nella guerra tra Spagna e Francia.
Acceglio divenne luogo di frontiera e di fortificazione quando l'artiglieria alpina, nel 1940, salì al colle di Maurin durante il conflitto tra Italia e Francia.
Nonostante occupazioni, guerre e distruzioni, il territorio rimase con un impianto urbanistico tipicamente medievale, soprattutto nelle frazioni. Il capoluogo La Villa è quello che ha subito maggiormente le trasformazioni urbanistiche nei secoli.
Su un'alta roccia posta sopra l'abitato sono ancora individuabili i ruderi del quattrocentesco castello, detto dagli abitanti "forte della torre" per via della massiccia torre quadrata.
Parcheggiata l'auto, inizio ad aggirarmi per il borgo. Tra i moderni edifici degli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso vi sono ancora vecchi e signorili palazzi. Notevole è la ricchezza di antichi portali in pietra, originarie fontane, strade in selciato che si inerpicano su per le montagne. Diversi edifici presentano antiche bifore e capitelli.
Sulla sponda sinistra del Maira vi è la seicentesca chiesa della Confraternita dell'Annunziata, che oggi è un museo di arte sacra. La confraternita aveva diversi compiti: organizzare le processioni, le manutenzioni delle chiese, il finanziamento dei curati delle chiesette delle borgate, garantire la presenza degli stendardi durante la sepoltura dei suoi affiliati.
Spesso le processioni vedevano la presenza dei batau, ovvero confratelli incappucciati che si auto flagellavano battendosi a sangue sulla schiena con diversi tipi di flagelli. In genere questi disciplinati erano preceduti da un altro confratello, a piedi nudi, con delle catene ai piedi e una grossa sbarra di ferro che portava sulle spalle con le braccia allargate.
La chiesa dell'Annunziata è chiamata dagli abitanti la crousà e la Confraternita è stata istituita a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, forse su sollecitazione dei padri Cappuccini. Oggi il suo museo di arte sacra conserva dipinti, statue, paramenti ecc. provenienti dalle cappelle delle chiese della vallata.
Poco distante, vicino alla chiesa parrocchiale, si erge un grande edificio con i suoi lunghi balconi: era la sede della caserma della Guardia di Finanza di Acceglio. Una grande scritta dipinta sul muro ne ricorda i fasti e l'intitolazione al finanziere Francesco Ajassa.
Poco distante vi è la chiesa parrocchiale dedicata a Maria Vergine Assunta, Santa Margherita e Sant'Anna. L'attuale chiesa risale al 1724, ha una fattura semplice, tripartita da leggere lesene e presenta un tetto a spiovente. Dispone di una sola porta d'accesso, un marcapiano è posto all'altezza massima dei tetti laterali a spiovente. Sopra il marcapiano un loculo permette alla luce d'entrare, un grande timpano chiude la parte centrale della facciata.
Mi avvio oltre il torrente Maira, passando sul ponte posto sotto il colle, dove si erge l'imponente edificio realizzato con il lascito di Davide Calandra e che attualmente ospita il municipio e le scuole.
Il borgo di Villa ha tante sorprese anche oltre il torrente Maira. Infatti vi è ancora, anche se sconsacrata, la chiesa di San Defendente e tracce del convento dei Cappuccini, fondato per combattere l'eresia. In realtà queste zone di confine con la Francia vedono per lungo tempo professata la religione protestante. Nel XVI secolo ad Acceglio arrivarono dalla vicina Francia gli Ugonotti che fuggivano le guerre di religione e il borgo diventò la cittadella del calvinismo della valle. Con il termine Ugonotti si identificano i protestanti francesi di confessione calvinista. Furono da questi profanati i luoghi cattolici e fu dato fuoco alla chiesa parrocchiale e ad altre cappelle.
La comunità di Acceglio fu la prima valle italiana ad essere contaminata dall'eresia protestante. A fine del XVI secolo la maggioranza delle popolazioni era calvinista; nel 1602 iniziò la missione dei frati Cappuccini per riportare gli accigliesi alla religione cattolica romana, missione voluta dal duca Carlo Emanuele di Savoia che si era impadronito del territorio. Furono anche diversi gli arrestati e giustiziati tra i capi dell'eresia di Acceglio.
Prima di oltrepassare il ponte sul Maira, noto su un edificio una lapide che ricorda il soggiorno del re Alberto del Belgio nel settembre del 1932.
A Villa trovo un piccolo negozio, caratteristico, che vende un po' di tutto. Lo gestisce Janet, con i suoi 75 anni di "servizio", come lei stessa specifica. Nel suo piccolo locale vende giornali e libri, cartoline, souvenir e anche generi alimentari. Janette, scopro, è la zia di un mio conoscente, e ciò mi permette di raccogliere tante storie, aneddoti e anche leggende locali e ricette. È una simpatica anziana signora, molto magra, con un viso allungato e gli occhi scuri, e le piace parlare molto. Alterna la lingua occitana a quella italiana a seconda del cliente che entra nel suo negozio.
Mi racconta così della vita di un tempo e di come vivevano nelle loro misum, come chiamano le case in lingua provenzale. La maggioranza delle famiglie viveva di agricoltura e di allevamento di ovini e bovini. La vita un tempo si divideva sostanzialmente tra i mesi estivi e quelli invernali. Durante i mesi estivi le borgate si spopolavano, perché le famiglie con le greggi al seguito si trasferivano nelle baite in montagna.
Le stalle dei bovini si aprivano nel mese della Madonna (maggio) e dopo poche settimane iniziava ënarpar, ossia la transumanza verso i pascoli della montagna dove vi rimanevano fino all'autunno. Le mucche erano così libere di far suonare i loro campanacci, sunaëos e ruduns, controllate dai ragazzi, mentre era compito delle donne provvedere alla mungitura, alla lavorazione del latte e alla pulizia delle stalle.
Tendenzialmente ogni famiglia aveva pochi capi di bovini, molte invece le capre. Gli uomini approfittavano di primavera e autunno per andare a lavorare come manovali, muratori e carpentieri per arrotondare il magro guadagno che dava l'agricoltura e la pastorizia. Tornavano poi per i periodi di lavoro più pesante come la fienagione, la mietitura, per zappare i campi e spaccare la legna. Si alzavano prima dell'alba e lavoravano fino a tarda serata. Janette mi dice che nelle baite non c'era luce elettrica e si illuminava l'abitazione con il chinché che tenevano sul tavolo, un tipo di lanterna a petrolio.
In inverno le famiglie della borgata vivevano prevalentemente nelle stalle, dove gli uomini preparavano le ceste, le donne filavano, rammendavano o lavoravano a maglia.
Alla sera, nelle stalle si riunivano più famiglie per stare in compagnia, raccontare leggende e favole ai bambini. Era compito degli uomini curare gli animali in questa stagione, dove già alle 6 del mattino si iniziava ad andare sul fienile, a caricare il fieno negli archs, una specie di trasportino. Il fieno veniva precedentemente tagliato con il taët.
Dopo aver dato da mangiare agli animali occorreva pulire il giaciglio, portando via il letame e sostituendo la paglia di segale. Il letame veniva spostato con delle carriole (carëts) o barelle (sfioros o anche leos).
Janette mi racconta, insieme a un anziano signore che si è soffermato con noi, che l'acqua potabile arrivò nelle case negli anni ‘60 del secolo scorso, prima ci si approvvigionava alle fontane pubbliche e per il trasporto dell'acqua con le barikos, una specie di giogo sagomato che, posto sul collo delle persone, permetteva il trasporto di due secchielli per volta.
Non posso non chiedere a Janette cosa si ricorda della vita da bambina. Mi racconta che i bambini nascevano in casa e le famiglie erano molto numerose, anche se la mortalità infantile era altissima, soprattutto nei primi anni di vita.
Il nuovo arrivato, che è molto più anziano di Janette, almeno in apparenza, ci tiene a dire però che l'analfabetismo era pressoché assente, perché i bambini imparavano a leggere e scrivere e che le loro scuole erano le serate nelle stalle. Quando poi si andava a scuola i maestri erano molto severi, aggiunge Janette, si curava particolarmente la grammatica e la calligrafia. Non vi erano giocattoli, le bambine giocavano con bambole di pezza mentre i maschietti si costruivano i giochi con pezzi di legno. I giochi di società erano sostanzialmente la palla a mano, le biglie, lo strëmasce, ossia nascondino, e nei pascoli si giocava a ciapët o mindulo, una specie di baseball dove invece della palla si lanciava un rametto e al posto della mazza si usava un bastone. I bambini erano molto rispettosi degli adulti a cui si rivolgevano utilizzando esclusivamente il Voi.
Le case non avevano tutte il forno per cuocere il pane, in ogni borgata vi era un forno comunitario, lu furn, in cui avveniva la panificazione. Gli adulti e gli anziani giocavano nelle serate o nei giorni di festa al gioco delle bocce, o carte o a muro; quest'ultimo vedeva due giocatori battere contemporaneamente sul tavolo il polso destro, aprendo le dita, la somma delle dita dei due giocatori dava la vittoria a chi aveva urlato prima il numero.
Mi faccio raccontare qual era l'alimentazione giornaliera, così mi raccontano che la colazione (culasciun) era a base di latte scremato e bollito, con pane duro e al posto dello zucchero si usava il sale.
A pranzo, dina o mrendo, si mangiava pasta fatta in casa, taiarins o anche gli gnocchi d'orzo, cruset d'urge, ma anche polenta d'orzo, e chi era in alpeggio si cibava con pane e formaggio. Si beveva acqua, il vino era raro e si beveva nelle feste o in compagnia.
A cena (sino) si mangiavano i viando, ossia taiarin al latte o cotti in acqua con grassi animali e con due fette di pane di segale. La carne non si mangiava quasi mai, perché gli animali come mucche, pecore, capre e galline venivano venduti per fare reddito, come le uova. La carne si mangiava solo se l'animale moriva per qualche incidente e non per malattia, in quest'ultimo caso andava interrato.
La frutta abbondava in estate e in autunno, ed era una valida alternativa o complemento ai pasti quotidiani. Si trattava di mirtilli, ribes, lamponi, fragoline di bosco, noci, nocciole, ma anche mele e pere.
Lascio il negozio di Janette dopo aver comprato alcuni formaggi locali, riprendo l'auto e mi propongo di visitare alcune delle borgate. Prendo la strada che dalla Villa mi conduce verso i confini di Stato. Dopo qualche chilometro e diversi tornanti, immerso in un paesaggio splendido, incontro la borgata di Villaro.
Parcheggio prima dell'abitato e mi inoltro nel piccolo borgo a piedi, le strade hanno un bel selciato e se anche le misun sono rimaste intatte nella loro storica connotazione, sono state trasformate in splendide abitazioni con tutti i comfort moderni.
In un recinto, quattro asini osservano i miei movimenti, soprattutto il piccolo puledro che mi segue mai però allontanandosi troppo da mamma asina.
Il borgo Lu Vilar, nella dizione e grafica occitana locale, è posto a 1377 metri, il toponimo per alcuni esperti è di origine longobarda e deriverebbe da Villa, ossia un centro amministrativo. Il borgo è ben curato, le case hanno tutte le finestre decorate da vasi fioriti.
Anche la piazzetta Sal Saret antistante alla chiesetta intitolata alla Trinità e alla Madonna Addolorata è ben curata. La chiesetta, di cui non si conosce la data di fondazione, è comunque precedente al XV secolo, ha una facciata a capanna, dotata di una sola porta di accesso, e ai due lati presenta due finestre. Sopra la porta di accesso vi è un interessante affresco ottocentesco, ai lati dell'affresco ancora due piccole finestre. Dal colmo della chiesetta si erge un campanile, anch'esso ottocentesco, che sembra voler controllare l'intero borgo. La chiesetta sembra proprio il gioiellino del paese.
Raggiungo uno ampio spazio, con al centro una grande fontana in pietra detta bacias gras sormontata da una colonna in pietra scolpita con arcaiche raffigurazioni di teste umane.
Mentre sono intento a fotografare il borgo, mi si avvicina un'anziana signora, vestita semplicemente con un abito scuro con delle pince e colletto bianco sopra un grande grembiule. Dopo i convenevoli, l'anziana signora, magrolina e con un viso scavato dall'età, capelli grigi raccolti in uno chignon e due grandi occhi neri, inizia a raccontarmi, dietro mia sollecitazione, del famoso carnevale di Villaro.
Mi racconta che le barbòòros, le maschere, erano tutte artigianali, e che lei conserva gelosamente ancora in casa quella dell'arlecchino. Mi descrive minuziosamente le figure delle maschere, a partire dal personaggio che identifica il carnevale, distinguibile da un cappello quadrato a torre di colore bianco decorato con ricami e nastri colorati; l'abito che il carnevale indossa è bianco con ricami e coccarde, fatti con nastri colorati e perline.
Gli arlecchini, anche loro di bianco vestiti con abbondanti ricami, nastrini colorati, sono riconoscibili da un copricapo conico riccamente colorato e terminanti con un foulard e nastrini colorati. Alla vita portavano una cintura con tanti ciuchins, campanelli, e brandivano in mano una spada con un limone o un'arancia conficcata sulla punta. Gli arlecchini accompagnavano le maschere del carnevale e vi danzavano con passi tramandati da generazioni. Queste figure mi ricordano il carnevale di un borgo alessandrino, la Lachera di Rocca Grimalda.
L'anziana signora si allontana dicendomi di non andarmene. Ritorna con in mano alcune fotografie di un carnevale di qualche decennio indietro. Dalla foto riconosco le figure descritte e lei mi indica il "comandante", ossia colui che aveva il compito di dirigere le operazioni carnevalesche e presentare i personaggi: gli sposi, il cacciatore, l'orso, personaggio quest'ultimo che doveva essere cacciato dal cacciatore, l'ebreo errante o Gian Pitadè/Jaan Pitaden e molti altri.
Il carnevale simboleggiava l'arrivo della primavera ed era di buon auspicio per un buon raccolto. Durante le rappresentazioni, i personaggi in maschera percorrevano le strade del borgo mentre veniva cantata la canzone di Gian Pitadè.
Chiedo alla mia nuova amica di farmi ascoltare qualche frase delle canzoni, possibilmente in italiano affinché possa io comprendere. Così mi racconta la canzone che è molto lunga. Nel congedarmi e ringraziare quanto narratomi, la donna mi indica una splendida casa con un atrio coperto e m ricorda che lu Vilar è un antico borgo medievale autentico.
Lascio Villaro e la strada continua a salire fino a raggiungere Ponte Maira – Pont Mairo; borgo situato a 1404 metri s.l.m.. Già entrando per il piccolo borgo incontro la chiesetta o cappella intitolata ai Santi Antonio Abate e Pietro. La facciata della cappella, tutta coperta dal porticato, ha un solo ingresso e due piccole finestre ai lati; interamente intonacato ha un grosso affresco proprio sopra la porta principale.
Percorro tutto il borgo, non vi è nessuno per strada ma diverse sono le insegne di attività commerciali e di appartamenti in affitto per i periodi di vacanza, segno di vitalità del borgo.
Sempre costeggiando il torrente Maira, poco dopo raggiungo la chiesetta di San Pietro. In questo luogo un tempo vi era il borgo di Olagnero, abitato fino al 1957 e poi distrutto da una terribile alluvione.
Sempre qui vicino, oltre al fiume, vi era il borgo di Reghe, scomparso a fine XVII secolo con tutti i suoi abitanti per una frana che li seppellì tutti. Dell'antico centro abitato si è salvata solo la cappella di San Pietro. Questa cappella ha un grande portico, un tempo usato per ospitare i viandanti. Immersa nel verde, vicino al ponte che attraversa il torrente Maira sembra un piccolo gioiellino di architettura sacra rurale.
Dopo aver attraversato le poche case di località Castello raggiungo Saretto. Lasciata l'auto su uno slargo della carrozzabile principale, scendo per una strada parzialmente franata per visitare il borgo.
Saretto, in occitano dialettale lu Saret, è posto a 1530 metri s.l.m., proprio a monte di questa borgata in una località chiamata Sorgenti nasce il fiume Maira che dà il nome a tutta la vallata. Un tempo in questa località vi era una cava di marmo nero ormai abbandonata.
Sulla piazza principale si erge la piccola cappella intitolata a San Lorenzo, ma il borgo festeggia San Vincenzo. La cappella è molto ben curata, la facciata a capanna è simile alle altre, ma le decorazioni la fanno sembrare un grande palcoscenico con dei tendaggi, dove un grande affresco con San Lorenzo e con la Vergine è affiancato da altri affreschi floreali.
Di fronte alla chiesa vi è il forno comunitario, ancora ben conservato e utilizzato durante le feste del borgo. Il borgo ha molti affreschi sacri e proprio vicino a una casa con un affresco di San Sebastiano, su una casa recentemente restaurata, un po' troppo modernamente, vi è una lapide così recita: «In questa casa al cospetto delle libere montagne d'Italia e di Francia il 31 maggio 1944 - rappresentanti dei due popoli in lotta contro nazismo e fascismo - definirono in un patto di ritrovata solidarietà - gli accordi di Barcellonette - rinnovando l'impegno di combattere in fraterna comunità d'intenti e di opere per l'avvenire di un mondo giusto democratico civile.»
Questa lapide ricorda il patto di Saretto, un accordo tra i partigiani francesi e quelli italiani, ma è anche bene ricordare che ufficialmente i due Stati erano ancora in guerra tra loro e la sottoscrizione del patto tra i Maquis francesi e il CLN (Comitato di liberazione nazionale) rappresentava anche il valore dell'amicizia e l'assenza di ogni risentimento tra le parti.
In auto costeggio per un lungo tratto il lago di Saretto, la strada si fa più irta anche se è facilmente transitabile e ben curata. Raggiungo così il borgo di Chiappera o la Chiapiero, posto a 1623 metri s.l.m.. Il paese è l'ultimo insediamento del Comune di Acceglio e il suo nome dovrebbe arrivare dall'occitano clapiera, che indica i cumuli di pietre tolte dai campi per permettere la coltivazione. Vi è un ampio parcheggio proprio al limitare del borgo.
Il paese è ricco di bellissimi esempi di case con le classiche architetture di montagna. Incontro subito la bellissima chiesa di Sant'Anna e Margherita, edificata a fine XVIII secolo. Sulla chiesa vi sono ancora, murate su un lato, delle lapidi del vecchio cimitero, e appresso vi è il monumento ai caduti delle guerre mondiali.
Ma la vera meraviglia sono gli affreschi devozionali presenti sulle case, in particolare in prossimità della chiesa e sulle pareti della stessa. Passeggiando sulle stradine, non si può non rimanere meravigliati dalle tante piccole baite presenti, completamente ristrutturate con i loro piccoli e colorati giardini privati, ma anche dai caratteristici ponticelli in pietra che scavalcano il rio e dal ben conservato forno comunitario.
Mi aggiro tra le case sotto lo sguardo attento dei gatti, veri custodi del borgo. Raggiungo la piccola ma ben conservata chiesa di San Gregorio, il cui affresco è posto sulla facciata sopra la porta. Ma la caratteristica maggiore di Chiappara è il profilo slanciato della Rocca Provenzale che domina sul borgo.
Poco distante da Chiappera vi sono le bellissime cascate di Stroppia, vicino a quella che un tempo era una miniera di carbone.
Rientrando verso la Villa, prima di Villaro, una stretta e alquanto ripida strada mi conduce verso il borgo di Lausetto, posto a 1510 metri s.l.m.. Trovo subito parcheggio, due cani ringhiando mi si avvicinano, limitando di molto i miei spostamenti. Non riesco così a vedere la cappella dedicata agli Angeli Custodi.
Mi aveva detto Janette che una leggenda vuole che sotto questa cappella ci fossero dei cunicoli, oggi non praticabili per dei crolli. In questi cunicoli sarebbe stata allestita, tanti anni fa, una zecca clandestina.
Mi arrampico attraverso un'irta strada di campagna, fino in cima a un colle che sovrasta Lausetto, per raggiungere la chiesa di San Maurizio. Dal sagrato della chiesa si gode di una magnifica vista panoramica sull'alta Valle Maira. La chiesa è in ottime condizioni, segno di un'assidua frequentazione. Si racconta che i francesi d'inverno custodissero i cadaveri dei loro defunti nei sottotetti facendoli congelare, per poi portarli a seppellire nel cimitero della chiesa. Ciò avveniva in una lunga processione valicando il Sautron.
Il toponimo Lausetto risale all'epoca fascista, in quanto i borghi dovevano avere nomi italiani, e deriverebbe da lastra di pietra. In precedenza era denominata Adrech, che indicava un versante delle montagne posto verso il sole, luogo ideale per conservare il fieno.
Sopra Lausetto vi è il borgo Colombata a 1585 metri s.l.m., la Culumbà in occitano. In questa località vi è la cappella della Madonna delle Grazie e visto il numero di ex voto presenti può considerarsi un vero santuario.
Scendendo verso la Villa, mi sovviene che Janette e il suo anziano cliente mi avevano detto che Lausetto è il paese di origine della famiglia di Giovanni Giolitti, ma anche della famiglia Ponza di San Martino che diede i natali al conte Gustavo Ponza di San Martino, ministro degli Interni del Regno di Sardegna durante il regno di Vittorio Emanuele II.
Prima di raggiungere la Villa passo da Bargia, in occitano locale la Bargio, vicino a questa località vi era una cava di marmo serpentino, utilizzato per i pavimenti di alcune sale del castello di Racconigi.
Occorre anche ricordare che nel vallone di Unerzio vi sono i borghi di Frere, Gheit, Chialvetta Pratorotondo e Viviere. Frere, le Freras prende il nome dalla presenza di cave di ferro e vi sono molti sentieri naturalistici. Gheit, Lu Gheit, indica invece un luogo abitato da rapaci notturni.
Chialvetta, Charveto in lingua locale, invece ospita un museo etnografico, mentre a Pra Riund, ossia Pratorotondo, il 15 giugno 1879 nacque il pittore Matteo Olivero.
La cappella del piccolo borgo è intitolata alla Madonna della neve. Interessante il mulino a pietra orizzontale e le antiche fornaci per la calce.
Invece Viviere, ossia Vivier, è posto a 1709 metri s.l.m., ed è organizzato come un gruppo di case arroccate che segue il crinale della montagna.
Allontanandomi da Acceglio non posso non ricordare, forse per deformazione professionale, l'alluvione del 1957. Tra l'11 e il 17 giugno, delle imponenti piogge si riversarono sull'alta Valle ingrossarono il torrente Maira e i suoi affluenti. L'acqua del fiume correva tumultuosa distruggendo tutto ciò che incontrava. Presto tutti i borghi lungo il torrente Maira furono danneggiati e il borgo di Villa fu devastato. L'intera alta vallata rimase isolata per diversi mesi.
Sono veramente felice di aver visto questa perla delle Alpi Cozie e soprattutto di aver mangiato, prima di partire, le raviolas, un piatto che un tempo si mangiava solo a Natale e Pasqua. Quelle originali, che ho avuto il piacere di gustare, sono fatte con farina di frumento e patate che impastate vengono trasformate in serpentelli lunghi 50 cm. Successivamente, tagliati a pezzi più corti e aiutati da una tavoletta di legno turnoëro, venivano fatti rotolare fino a ottenere un vermicello panciuto di non più di 8 cm di lunghezza. Le raviolas, una volta cotte, vengono condite con abbondante burro sciolto in padella: una prelibatezza che raccomando a tutti.