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Il mio Piemonte: Ingria

Martedì 01 Novembre 2022 11:58
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IngriaLa giornata si presenta calda ed afosa, ma in soccorso oggi arriverà la montagna e la bellissima val Soana. Dopo un viaggetto in auto e una bella arrampicata in auto lungo il corso del Soana arrivo a Ingria. Il cielo è limpidissimo, di un azzurro incredibile, mi ricorda il mantello del principe di Biancaneve nel film animato di Walt Disney.
Questo comune ha un territorio assai grande che si distende su i due versanti boscosi che corrono lungo il corso del torrente Soana. Su questo distesa verde di boschi di latifoglie, principalmente castagni e faggi, nascosti tra alberi ci sono molte frazioni che con i campanili delle loro borgate che fanno fatica a trovare spazio in questa lussureggiante selva ombrosa. Albaretto, Albera, Arcavut, Bech, Beirasso, Belvedere, Bettassa, Borgognone, Camprovardo, Cavagnole, Ciuccia, Fenoglia, Ghiaire, Mombianco, Monteu, Querio, Reverso, Rivoira, Salsa, Villanuova, Viretto sono i nomi di alcune frazioni o borgate, per lo più disabitate o abitate durante la bella stagione. Infatti il comune di Ingria fatica a raggiungere i 50 abitanti. Non riuscirò a visitarli tutti ma cercherò di vederne i maggiori. Secondo alcuni studiosi il nome di Ingria deriverebbe da un patronimico tedesco Ingrich, ipotizzando un dominio longobardo sulla zona. I primi documenti storici che parlano di questo centro risalgono all'XI secolo quando Ingria che è posto all'inizio della val Soana con tutta la valle fu feudo dei conti di Valperga. Di certo si sa che i suoi abitanti parteciparono alla rivolta dei turchini e che furono domati solo nel 1435, dopo quattro anni di accanita resistenza, dalle truppe del duca di Savoia. La popolazione della vallata e della valle Orco era duramente provata dalla carestia, dalle pestilenze e dagli onerosi tributi
da versare ai nobili in lotta tra loro sui possedimenti della valle. La popolazione rispose alle lotte tra le fazioni con un dura ribellione, appunto il "tuchinaggio". Ma sicuramente i primi abitanti della Val Soana furono, almeno nel V secolo a.C. furono i Salassi, una tribù celtica proveniente dalla Gallia. Tribù che furono assoggettate ai romani solo nel 25 a.C. Gli ultimi tragici avvenimenti che che ancora hanno lasciato segni sul territorio e nei ricordi dei più anziani sono i violenti scontri tra partigiani e nazifascisti, soprattutto del 1944, quando la popolazione tutta fu coinvolta in una rappresaglia con incendi, saccheggi.
Ancora ai primi anni del Novecento, Ingria aveva una popolazione di quasi 2.000 abitanti fu poi assoggettata ad fortissimo spopolamento. Lasciata la strada principale, dove si erge ancora maestoso un ponte romanico in pietra, raggiungo il capoluogo ove parcheggio l'auto e inizio a vagare per il borgo che è molto ben curato. Le case sono quasi tutte restaurate, presentano belle balconate in legno con tanti vasi di fiori che insieme alle facciate delle case intonacate la colorano rendendola particolarmente piacevole. Anche I piccoli giardini delle case presentano un bell'assortimento di fiori. Sulle case sono affissi grandi fotografie delle famiglie che vi abitavano, talune con brevi descrizione in lingua franco-provenzale e del lavoro che esse svolgevano; infatti le case raccontano, viene tradotto come Le manzon i contiont, una bellissima iniziativa della amministrazione comunale che non solo ha reso più interessante il paese ma ha permesso di raccontare un pezzo do storia popolare vissuta.
Nei pressi del Municipio, vicino ad un piccolo giardino con il monumento ai caduti, incontro una simpatica anziana signora che mi si avvicina e con la quale converso amichevolmente. È impossibile dargli un età, presenta una fierezza incredibile ed un grande amore per il suo paese. Non si lesina a raccontarmi storie di Ingria, della sua tradizione, della sua lingua franco-provenzale, tanto meno sui costumi tradizionali. Delfina è magrolina, vestita con abiti semplici e una maglietta di filo rossa, presenta una capigliatura bianca con chignon con una grande forcina passante. Il viso è ovale con due grandi occhi neri scavati nascosti dagli occhiali da vista, le rughe dell'età sono assai mistificate dal trucco. Le labbra sono sottili e fini ma esprimono gioia e serenità con il suo grande sorriso, mentre il naso è leggermente adunco.
Sulla piazzetta si erge la seicentesca chiesa Parrocchiale di San Giacomo ed eretta in parrocchia nel 1708 come mi racconta la mia, ormai guida, per il paese. Prosegue raccontandomi che nella chiesa era conservato alcune preziose reliquie di San Giacomo e di Sant'Antonio Abate. In chiesa si trova un affresco con il Battesimo di Cristo, mentre l'altare maggiore è in pietra. Altri altari settecenteschi sono dedicati a San Giuseppe, alle anime del Purgatorio, a sant'Antonio da Padova e alla Vergine del Rosario. La mia nuova amica, con fierezza mi racconta che è altresì conservata una grande tela raffigurante l'Assunzione della Vergine con quattro Santi. Con la descrizione che ho avuto, anche se la chiesa è chiusa è come se l'avessi visitata internamente. Mi soffermo sulla bella piazza antistante la chiesa per ammirane il prospetto. L'edificio ha la facciata interamente intonacata e tinteggiata di bianco, come molte case del paese. Presenta una facciata con tetto a salienti, la parte centrale, un bel piccolo portico che protegge la porta d'accesso, la sua volta a padiglione è interamente decorata. Sopra il portale in marmo dell'unica porta d'accesso vi è una lunetta decorata raffigurante San Giacomo. Una statua del santo è anche collocata in una nicchia nel timpano della chiesa.
Dalla piazzetta della chiesa si ha una vista stupenda sul vallone sottostante con le sue montagne che lo circondano.
Il campanile è leggermente scostato dalla chiesa ed è addossato all'edificio in pietra del vecchio edificio comunale. Il campanile si presenta massiccio, realizzato totalmente in pietra, presenta sotto la cella campanaria un orologio in cui le ore sono dipinte. Una scolorita meridiana è sempre posta un lato della torre campanaria. Anche sul vicino edificio vi è una grande foto lo ricorda come il primo edificio comunale. Sulla foto si vede un edificio intonacato, mentre ora è in pietra viva, la scala d'accesso in pietra è lo stesso di un tempo, forse sono solo cambiate le ringhiere ma sono comunque in ferro battuto. Sulla foto sono ritratte una moltitudine di persone, sicuramente di più degli abitanti di oggi. La scritta in franco provenzale recita: Ritrat doant a lou comun vìei.
Accompagnato dalla mia "guida locale" faccio il giro del paese, con le sue strette stradine, i suoi fienili, le sue fotografie, i suoi balconi fioriti e i gatti sornioni che sdraiati al sole guardinghi osservano il nostro passaggio. Di tanto in tanto ci fermiamo ed ascolto i racconti di Delfina sui vecchi mestieri del posto, come quando arriviamo davanti a La grà dle Quegne, ossia l'essiccatoio delle castagne. Infatti il borgo è per antonomasia chiamato il "Paese delle Castagne" e mi narra la mia anziana guida che gli ingriese sono chiamati Gruio ossia "castagna piccola", un nomignolo che ritengo molto garbato. Prosegue il suo racconto dicendomi che in autunno quando le foglie del Castagno cambiavano colore, con delle lunghe pertiche o bastoni ( perctchi), aiutati dalle scale per raggiungere i rami più alti, si facevano cadere i ricci delle castagne che venivano raccolti e ammucchiati (l'arifè). Successivamente quando faceva freddo, anzi molto freddo, i ricci venivano battuti, le castagne così conservate fresche venivano suddivise per grandezza secondo i diversi usi. Le prime castagne cadute dall'albero si facevano seccare nel Grà in un locale riscaldato attiguo alla casa. Quando erano secche si facevano tre scelte, quelle bianche pronte per essere cucinate, quelle con la camicia e quelle con la "reifa" utilizzate da dare in pasto agli animali. Una parte delle castagne sbucciate si portavano al mulino a macinare. Per tutto l'inverno dalle case usciva il profumo di minestra di castagne preparata con latte e riso. Proseguiamo la nostra passeggiata per il borgo, tra strade strette e talvolta superando voltini delle stesse abitazioni, non incontriamo nessun'altra ma dalla cura delle abitazioni direi che la vita prosegue silenziosamente e serenamente in questa bella località della valle Soana. Mi racconta, sempre la mia anziana guida che fino al secolo scorso, quando nevicava o comunque dopo il 18 gennaio, festa di Santa Liberata, gli uomini lasciavano le loro case per cercar fortuna nelle città. Uno dei lavori che andavano a fare erano i calderai o gli stagnini, i cosiddetti Magnin o Ruga in patois locale. Muniti delle loro cassettine di attrezzi, come lime, tenaglie, pinze, trapani a mano, mantici e incudini camminavano per strade e piazze del Piemonte, Lombardia e Liguria ma anche Svizzera e Francia per aggiustare o creare pentole ed altri attrezzi. In primavera facevano ritorno a Ingria per riprendere la vita nei campi e nei loro piccoli allevamenti, riunendosi alla famiglia, fino al prossimo inverno. Come avevo già sentito in altri luoghi, per non farsi "rubare il mestiere" tra di loro e con i loro garzoni, tendenzialmente i loro figli più piccoli, parlavano un linguaggio ermetico, spesso esprimendosi con parole di patois arcaico. La domanda viene spontanea da rivolgere alla mia guida, su cosa facevano le donne una volta accudite le faccende di casa, dei figli. Il racconto si fa più complesso e mi inizia a spiegare che preparavano i vestiti, ossia le flanelle (le fanèle), le calze (le ciàohe), maglie (il màio) che erano confezionate a mano a partire dalla filatura della lana comprata dai pastori che portavano le greggi negli alpeggi. La lana veniva lavata, poi cardata con ‘l ancartàh e poi passata nel filatoio (lu filarèl). Dai gomitoli ricavati, si lavorava con i ferri a maglia. Alcuni filavano anche la canapa (la rihta) dove formavano le matasse con l'arcolaio (‘l ruét). Ormai siamo tornati davanti al municipio, da un lato osservo la lapide con i nomi dei caduti nelle diverse guerre e penso al dolore e allo strazio delle loro famiglie. Dall'altro osservo il bel palazzo municipale che non solo rappresenta la comunità di Ingria, ma da quanto ho compreso ne difende anche l'entità culturale.
Prima di lasciare la mia simpatica guida, mi soffermo a guardare attaccato sul muro "la Bertchi" che si pronuncia berci, attrezzo usato dai "vedriat" ossia i posatori di vetri, che la portavano sulle spalle con i vetri. Costoro giravano per le strade lanciando il loro richiamo alla ricerca di client, muniti di vetri e di mastice.
Lascio l'anziana signora che nello scambiarsi i saluti mi invita a tornare e a promuovere Ingria, affinché la gente torni sia ad abitarla che per turismo. Nel lasciare il borgo, lancio ancora uno sguardo alle figure dipinte sui muri e sulle porte, raffiguranti per lo più gnomi, folletti e figure umane vestite nei tradizionali abiti e costumi tradizionali. Ripreso l'auto, continuo a inerpicarmi sulle strette strade comunali costeggiate da bellissimi boschi, interrotti da ruscelli con le sue rumorose cascate e fresche acque. Raggiungo così Camprovardo ove la strada finisce con un piccolo parcheggio. Proseguo la mia passeggiata tra le case che sono per lo più disabitate, le altre sono ben restaurate e forse abitate soltanto in alcuni periodi dell'anno.
Nella frazione posso osservare alcune caratteristiche abitazioni di tre o quattro piani, costruite in pietra, collegate tra loro da scale esterne di legno. Trovo dopo un po' di tempo che mi aggiro tra le strettissime stradine selciate in pietra, dove le case sembrano addossate l'una all'altra, un muratore che è impegnato nel recupero di una abitazione. Mi indica come raggiungere la chiesa della borgata che trovo quasi subito. La graziosa chiesetta di San Grato presenta una facciata a capanna con tetto in lose. La facciata è interamente intonacata e tinteggiata di bianco e giallo paglierino. La porta è affiancata da due finestre rettangolari. Al di sopra della porta è affrescata una colomba che ricorda la Trinità, simbologia assai usata nella Cristianità quale manifestazione dello Spirito Santo, infatti nella Bibbia si narra che, al battesimo di Cristo da parte del Battista, lo Spirito Santo "discese su di lui come colomba", per trasformarne la vita, nel timpano invece è riprodotto San Grato. Questo Santo è considerato il protettore dalle valanghe e dei raccolti dalle tempeste, specie dalla grandine. Sulla piazzetta della chiesa fa bella mostra di se un antica e grande e bella fontana in pietra che riporta scolpita la data 1858. Sono tanti gli affreschi votivi sulle case, solo in questa piazzetta vi è un bel e grande affresco votivo della Madonna Vergine del Rosario, affiancata da San Rocco e Sant'Antonio da Padova. Una scritta ricorda che fu voluta da Chioderio Pie° FF nel 1891. Mi aggiro ancora tra le belle e antiche case, sembra di essere in un film medioevale tra case in pietra, balconate in legno e tetti in losa. Lascio Camprovardo che è circondato da splendidi castagni e mi porto verso Rivoira che come a Campovardo non trovo pressoché nessuno. Anche qui le case sono in pietra, con i tetti a lose e presentano arcate, scalette e ballatoi tipicamente alpestri che danno un tono pittoresco a tutta la zona. Trovo subito la chiesetta della Madonna della Consolata, anche qui perfettamente conservata. Ha un piccolo ma bello slanciato campanile che come la chiesa è intonacato e tinteggiato. La bianca facciata a capanna presenta due finestre rettangolari ai lati della porta e un altra sopra di essa. Anche qui vi sono diversi e ben conservati affreschi votivi. Su diverse case, sono affissi alle pareti gli attrezzi agricoli un tempo usati in montagna, ma anche mestoli ed altri attrezzi da cucina. Da questa borgata come dalle altre, partono diverse mulattiere e sentieri che conservano, lungo il loro percorso da cappelle votive. Per raggiungere Pasturera devo fare un pò di strada in auto, sempre costeggiando boschi e bei prati a fienagione. Pasturera è posta a 980 metri s.l.m., vi trovo una bella fontana con un acqua fresca e leggerissima da cui mi disseto. L'abitato oltre alla piccola chiesetta con tetto a capanna dedicata a San Barnaba Apostolo con il suo affresco nel timpano, presenta un bel campanile in pietra assai distaccato dall'edificio religioso. Interessanti alcune case con archi in pietra a tutto sesto, assai antiche. Su alcuni balconate in legno trovo dei panni stesi, segno che la borgata è ancora abitata. Sempre in auto raggiungo Ruè posto a 1025 metri s.l.m. Questa borgata è assai piccola ma trovo un contadino impegnato a trasportare la legna da tagliare sul suo mezzo agricolo a cingoli. Vi è il piccolo parcheggio per le auto e dove finisce la strada asfaltata vi è un antica abitazione, non è proprio in buone condizioni con un grande affresco votivo. Questo affresco riporta la Madonna con Gesù bambino in grembo con San Giovanni Battista e San Giuseppe ai suoi lati. Non riesco a leggere la data ma è sicuramente ottocentesca. Ormai scendo verso Ingria ma voglio fermarmi a Penas, subito dopo l'abitato di Pasturera e raggiungere a piedi la chiesa della Madonna delle Grazie.
Faccio una camminata tra ì boschi e i splenditi prati fioriti, davanti a me il bianco campanile della chiesa della Madonna delle Grazie. Il vento leggero smuove le foglie degli alberi, mentre il cinguettio di alcuni uccelli rallegrano la mia bella giornata trascorsa in questa valle da favola. La mia attenzione è di colpo rivolta ad un frusciare con movimenti rapidi tra l'erba che ricopre il sagrato della chiesa. Mi soffermo sia ad ammirare la bella facciata della chiesa, anche incuriosito dal continuo frusciare nel prato fiorito antistante la chiesetta. Questo edificio religioso si trova a 950 metri slm circa, realizzata in pietra ha la sola facciata intonacata. Presenta due lesene agli angoli e un portale con due piedritti che sorreggono un timpano, sopra di esso una finestra reniforme. Lentamente mi avvino alla chiesa e mi soffermo con mia meraviglia a osservare due cuccioli di Volpe intenti a giocare; non si sono accorti del mio arrivo e continuano a rotolarsi nell'erba divertendosi ed emettendo leggeri guaiti. Li voglio lasciare tranquilli, uno spettacolo meraviglioso che non voglio disturbare. Così, lentamente come sono arrivato mi allontano. Riprendo l'auto, purtroppo l'ora è tarda, vorrei visitare l'altro versante del torrente Soana ove vi sono altre frazioni di Ingria, ma purtroppo molte non sono raggiungibili su strade carrozzabili. Devo pertanto immaginarle con i racconti che la mia anziata guida mi aveva fatto. Infatti mi aveva raccontato di una bella escursione che si poteva fare da Mombianco ad Albaretto dove c'è la chiesetta di Santa Libera. Superata la borgata Viretto, si raggiunge Mombianco attraverso una bella mulattiera. Questa borgata è arroccata su un poggio roccioso con abitazioni ben conservate, anche se non più abitate se non per brevi periodi all'anno. Conserva una bella cappella dedicata alla Santa Sindone e l'antico edificio scolastico dove il tempo si è fermato a quando nella frazione abitavano 52 famiglie. Il sentiero prosegue per Salsa dove le abitazioni sono in totale stato di abbandono ed è in parte diroccata. Tutto il percorso è costeggiato da edicole votive e transita tra boschi di castagno e faggete, ma anche superando pietraie e piccoli boschetti di betulle. Si raggiunge così Albaretto, un altra interessante borgata e subito dopo in direzione Betassa vi è il Santuario di Santa Libera, immerso in un bel bosco di castagni. Il Santuario, edificato nella prima metà del XVIII secolo ancora oggi è meta di pellegrinaggi, soprattutto intorno al 5 agosto festa Santa Libera. L'edificio presenta un ampio porticato che funge da atrio, sotto il quale, nella facciata sono affrescate la Madonna, Santa Libera e Santa Faustina. Altre interessanti borgate da visitare sarebbero state Monteu e Querio. Nella prima è conservata una casaforte a forma di torre e la cappella dedicata a Sant'Antonio da Padova, intorno alle quali si sviluppo la borgata compresa l'antica scuola che cessò la sua attività negli anni Sessanta del secolo scorso. Querio è ubicato a circa 1300 m di altitudine e la tipologia dei fabbricati più antichi permettono di datare l'insediamento di Querio al XIII – XIV secolo. Queste borgate subirono il forte processo di industrializzazione che ha causato una repentina emigrazione di massa dalle montagne.
Oltre alla bellezza del paesaggio, ciò che maggiormente mi ha colpito percorrendo questi luoghi è la tenacia dei loro abitanti, che sono riusciti ad edificare le proprie case e borgate in luoghi impossibili, recuperando piccoli spazi da coltivare ma anche la voglia di tramandare la loro storia e le loro tradizioni. Ormai la mia auto corre verso casa, soddisfatto di aver fatto un incredibile scoperta del mio Piemonte.