Blog di Dante Paolo Ferraris

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Il mio Piemonte : Cella Monte

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Cella MonteLa mattina di primavera nel Monferrato è un risveglio dolce, avvolto dai profumi della terra e dal canto degli uccelli che riecheggia tra le colline. Percorro un tratto di strada che definirei famigliare, avendola utilizzata per diversi anni, quando il basso Monferrato era la mia zona di lavoro. Il sole ormai alto in cielo ma ricordo quando lo vedevo sorgere lentamente dietro le creste ondulate delle colline, colorando il cielo di sfumature rosa e arancio. La nebbia autunnale, che di notte aveva abbracciato i vigneti come un velo sottile, si sollevava piano, lasciando spazio a una luce dorata che accarezza le vigne carichi dei suoi frutti.
I ciliegi oggi sono già punteggiati di petali bianchi e rosa, sembrano sospesi in un'atmosfera irreale, quasi fiabesca. Ormai ho raggiunto il piccolo borgo della frazione Coppi di Cella Monte e le stradine cominciano a popolarsi: un anziano passeggia con passo lento, ci scambiamo un veloce saluto. Gli uccellini, come capinere, fringuelli, merli, saltellano tra le siepi e i muretti, mentre i prati sono ricoperti di margherite e i fiori di tarassaco.
La strada principale della borgata che corre sulla cresta di colline è incorniciata da belle e antiche case, realizzate con le tradizionali pietra da cantoni, ossia un materiale di costruzione tipico della zona, che conferisce alle case un aspetto caratteristico e resistente. Si tratta di pietra arenaria recuperata nel sottosuolo in apposite locali cave. Sulle belle pareti delle case, talvolta abbellite da piante rampicanti, soprattutto rose, sono stati collocati dei bellissimi quadri. Una vera mostra permanente di Arte Moderna accanto alle "pietre antiche" con le opere di Gianni Colonna. Il pittore, di origini torinesi e allievo di Felice Casorati, ha scelto di vivere ed esprimere la propria creatività proprio nel paese monferrino. Raggiungo così la chiesa di San Giuseppe.
Nella frazione Coppi già esisteva tra la fine del secolo XVII e l'inizio del successivo, una chiesa intitolata a San Pietro in Vincoli. La sua novecentesca ricostruzione cambia la dedicazione a San Giuseppe. Presenta una una facciata neoclassica preceduta da alcuni gradini ed ha una pianta a croce latina. La facciata presenta una coppia di robuste colonne con capitelli ionici che sorreggono una trabeazione con grande frontone triangolare.
Per raggiungere invece la chiesetta campestre di Sant'Anna devo percorrere, in auto una stretta strada asfaltata che corre lungo la cresta delle colline e proseguire a piedi per una stradina tra vigne e campi coltivati fino a raggiungerla. È un bell'edificio, collocata su un fantastico belvedere da cui si gode una spettacolare vista sulle circostanti colline e sui borghi che appaiono come incollati sulle sue cime, che non a caso si chiama "Regione Belvedere". La chiesetta campestre di Sant'Anna risale a prima metà del XVIII secolo. Anche quest'edificio è realizzato in pietra da cantoni. La chiesa è anticipata da un grande porticato a tutto tetto, unica parte intonacata, forse è in laterizi e non in pietra di cantoni.
Recentemente restaurata presenta sotto il portico un ingresso affiancato da due finestre rettangolari. Ha un abside semicircolari e dalla finestre posso ammirare l'interno. Questo è spoglio, non presenta alcuna decorazione, ne è intonacata. Non ha nessun arredo e quello che era l'altare, spoglio, è in laterizio e legno. Lascio la bella chiesetta, dopo aver goduto dei panorami circostanti e ripreso l'auto mi dirigo verso il capoluogo.
Nel frattempo ricordo la storia del luogo. Già il toponimo è un mistero, infatti una versione degli studiosi fanno risalire il nome alle celle vinarie che venivano scavate nella pietra arenaria sotto le abitazioni. Un'altra ipotesi vuole che il nome derivi dai piccoli monasteri, appunto Celle. Di certo è che le prime attestazioni del nome risalgono al XII secolo, tanto nella forma plurale "Cellae" che in quella singolare, "Cella". Il nome compare in documenti, ossia un diploma dell'Imperatore Arrigo V del 1116, e ancora nella concessione del luogo a Guglielmo marchese del Monferrato da parte dell'Imperatore Federico I del 1164.
Dagli Aleramici, passa ai Paleologi e poi ai Gonzaga e quindi ai Savoia. Come tutti i borghi monferrini, subì i passaggi delle diverse armate, sia spagnole che francesi, ma anche sabaude e austriache. Ciò provocò carestie ed epidemie, come testimonia la chiesetta intitolata a San Rocco, collocata alle porte del borgo. Per raggiungerla ho superato Regione Varocara. Parcheggiato l'auto nei pressi di questa chiesetta, mi soffermo ad ammirarla: si tratta di un piccolo edificio situato all'imbocco della Regione Bocca.
La facciata, con tetto a capanna si presenta divisa in due ordini ed e tripartita da leggere lesene che sembrano suddividerla in sei specchi. L'ingresso è preceduto da alcuni gradini e ai lati della porta si aprono due finestre rettangolari. Nell'ordine superiore vi è una finestra semicircolare e due nicchie con statue sono poste lateralmente. All'interno è si presenta ad aula unica con volta a botte e conserva una tela raffigurante San Rocco. Inizio la mia lunga passeggiata che mi permetterà di conoscere meglio Cella Monte. La seconda parte del toponimo è stato aggiunto solo nel 1863, per volontà del Sindaco Luigi Vallino, poiché esso si trova su di una delle più belle colline del Monferrato.
Inizio a vagolare e in via Matilde di Francia, vicolo storico che rappresenta perfettamente la struttura del borgo, caratterizzata dalla presenza di antichi palazzi nobiliari, anche con belle finestre gotiche, case in pietra da cantone e scorci interessanti sugli edifici del centro e sul panorama collinare circostante. In fondo alla strada si erge Villa Cossetta, una palazzina dalle forme liberty, caratterizzata da un elegante torretta con finestre ovali e decorazioni nelle cornici delle finestre e del marcapiano. Invece via Dante Barbano attraversa longitudinalmente l'intero borgo. Costui era nato a Cella Monte nel giugno del 1922 e fu partigiano, caduto in combattimento a Roburent Pra nel cuneese nel marzo del 1944, a soli 21 anni. La via è le case che vi si affacciano sono ben conservate e raccontano la storia del borgo.
Dapprima incontro, in uno slargo conosciuto anche come Piazza del Bollo, ma che porta il nome di via Gian Giacomo Francia, un bel pozzo con la stemma nobiliare della famiglia Francia. Lo stemma della famiglia, con tre gigli sotto una corona. Gian Giacomo Francia nacque l'8 aprile 1773, figlio di Pietro Giorgio Francia, avvocato, e della marchesa Teresa Gambera, fu un aristocratico monferrino, giacobino dopo la Rivoluzione francese, e politico nell'Italia napoleonica.
Da giovane, laureatosi in giurisprudenza, conobbe illustri letterati ed amò soprattutto la letteratura francese. Si dedicò, quando era ancora residente a Cella, alla pasigrafia, una lingua universale (il termine fu creato nel 1797 da Joseph de Maimieux, ad indicare un sistema basato su corrispondenze fisse fra parole di una lingua e una serie numerica di segni convenzionali che possono essere compresi da persone di lingue diverse). Gian Giacomo conobbe Napoleone, al quale divenne debitore per la sua scarcerazione da Alessandria, subita durante il periodo della restaurazione austro-russa in Piemonte.
Fu in seguito nominato Sottoprefetto di Moncalvo e poi Segretario Generale del Dipartimento della Sesia. Ancora Procuratore Imperiale a Spoleto e nel 1812 Barone dell'Impero. Eletto membro del Corpo legislativo del Collegio di Vercelli, fu a Parigi tra la fine del 1804 e il 1806. Consigliere della Corte Imperiale a Genova dove rimase fino al 1814. Alla Restaurazione, cioè dal ritorno dei Savoia a Torino fino ai moti del 1821, visse appartato a Cella, tra un breve viaggio in Francia e un periodo a Villadeati.
Nel 1822 fu Sindaco di Cella e scrisse la Relazione statistica del Comune di Cella. Dal 1824 al 1829, fu Luogotenente Giudice di Casale e mandamento. Ma anche Decurione di seconda classe di Casale nel 1836 e Sindaco di Casale nel 1851. Altresì fu Consigliere di Corte d'Appello e Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Costui inoltre scrisse opere erudite, sulla questione della lingua italiana e tradusse in lingua italiana le Satire di Persio.
Lungo questa strada si erge una bella e antica Casaforte e diverse dimore settecentesche. In piazza Vallino si fronteggiano la chiesa parrocchiale, il Municipio, l'oratorio di Sant'Antonio e Palazzo Volta. La seicentesca chiesa Parrocchiale è intitolata ai Santi Quirico e Giulitta ha una facciata in mattoni a vista, tripartita da lesene sempre in cotto. La porta d'accesso è anticipata da una bella scalinata, e presenta due alte colonne in mattoni che sorreggono un timpano triangolare, ai lati vi sono due nicchie vuote. L'interno è a tre navate con volta a botte e abside è semi-cilindrica. Sono presenti pregevoli dipinti settecenteschi e ottocenteschi. L'altare maggiore datato 1744 è in marmo policromo come la balaustra. Al centro del coro è collocata una pala che raffigura il martirio di San Quirico e le cappelle laterali sono dedicate a San Carlo Borromeo e S. Antonio da Padova.
Mentre il Palazzo comunale è nell'antica abitazione della famiglia Cei. Sui conci di pietra della facciata sono visibili antichi graffiti risalenti al XVII secolo e un frammento decorativo in pietra da cantoni locale, probabilmente alto medievale. La famiglia Cei può annoverare un importante pittore. Infatti Cipriano Cei nato nel 1864 e scomparso nel 1922 fu un pittore specializzato come ritrattista e la sua ultima opera fu il ritratto a Benedetto XV. Invece la chiesetta di Sant'Antonio Abate, già Oratorio della Confraternita dei Disciplinanti è già citata nel 1577. La chiesa è interamente intonacata, con accesso tramite breve scalinata. La facciata con tetto a capanna, presenta una semplice porta d'accesso e una finestra reniforme.
Attualmente l'edificio è adibito ad auditorium. Invece Palazzo Volta che fu anche casa parrocchiale dalla seconda metà del XVII secolo, è oggi la sede dell'Ecomuseo della Pietra da Cantoni. Il palazzo, dall'impianto scenografico, fu costruito in epoca medievale e poi rimaneggiato tra il Quattrocento e il Seicento e presenta un pregevole loggiato e finestre ad arco originali di grande pregio, realizzate con colonne in pietra da cantoni. Il palazzo costituisce un monumento di notevole interesse storico-artistico e si affacciava a nord su un giardino pensile. Il palazzo conserva un ampio infernot ben conservato. L'infernot è una cella sotterranea, interamente scavata nell'arenaria in cui la temperatura e l'umidità costante, l'assenza di luce, di spifferi di aria offrono le condizioni ottimali per la conservazione delle bottiglie di vino. Sono piccoli capolavori architettonici realizzati da costruttori locali, testimonianze del sapere contadino.
I segni della storia del borgo sono visibili nelle case del borgo in arenaria e nei palazzi nobili, come la dimora di Pietro Secondo Radicati, vescovo di Casale Monferrato che la raggiungo passeggiando lungo la acciottolata via principale. Una tradizione storiografica vuole che nel territorio di Cella Monte, fossero anticamente presenti ben cinque castelli, di cui due fortificati, oggi, non più facilmente riconoscibili. Ciò giustifica come nel tempo il paese si sia arricchito di palazzi signorili, alcuni dei quali sorti in origine come dimore fortificate e poi trasformati in eleganti residenze civili, oggi, una peculiare caratteristica di Cella Monte.
Palazzo Radicati, pregevole edificio con torretta rotonda, piccolo campanile con orologio e racconta la storia di diversi suoi membri e anche del Piemonte. Infatti Gerolamo Antonio Radicati di Cocconato e Celle (Cella Monte), nacque 1665/1670-1720, di antica famiglia monferrina, sposò Flavia Teresa Sannazaro di Giarole. Gerolamo, fu uno dei nobili casalesi al servizio dei Gonzaga e comandante del reggimento Royal Monferrat, al servizio di Luigi XIV in Fiandra. Fu altresì governatore di Moncalvo e commissario generale della cavalleria, segretario di Stato, ministro del Consiglio riservato a Casale, governatore della fortezza di Porto a Mantova, nonché ambasciatore al duca di Lorena.
Fratelli minori furono Pietro Secondo (1671-1729), vescovo di Casale; Umberto e Lelio che entrarono nei gesuiti. Gerolamo fu un acerrimo oppositore dell'annessione del Monferrato ai Savoia e nel 1713 il vescovo Pietro Secondo scomunicò alcuni nobili della città, fedeli al re, in seguito a uno scontro accaduto durante la processione del Corpus Domini. Gerolamo che aveva avuto parte in tali scontri fu invitato da Vittorio Amedeo II a recarsi a Torino. Gerolamo finse di accettare, ma in realtà, temendo di essere arrestato, si rifugio a Novi, all'epoca ancora territorio della Repubblica di Genova, con l'intera famiglia. Venne così condannato a una multa di 2000 scudi d'oro e alla confisca dei beni.
Durante questo esilio gli nacque il figlio Ignazio. Il sequestro dei beni insieme con la chiara sconfitta del partito gonzaghesco indussero il conte Gerolamo a chiedere perdono a Vittorio Amedeo II. Nel 1720, dopo sette anni di esilio, tornò a Casale, ma vi morì poco dopo, lasciando la famiglia in gravi condizioni finanziarie. La vedova riuscì a rimettere in sesto il patrimonio famiglia, legandosi con la corte. Fu proprio il battesimo del piccolo Ignazio, tenutosi nel duomo di Casale e officiato dal vescovo Pietro Secondo che sancì questa alleanza. La madre, infatti ottenne che padrino e madrina fossero la regina di Sardegna Anna d'Orléans e suo figlio Carlo Emanuele, allora principe di Piemonte.
A rappresentare i padrini furono il marchese Gerolamo Falletti di Barolo e la sorella di questi Paola Cristina Falletti, dama d'onore della regina. Ignazio Secondo Radicati di Cocconato e Celle (Cella Monte) che nacque a Novi Ligure nel 1717, fu inviato a studiare presso il Collegio dei nobili di Torino, dove entrò a far parte dell'Accademia degli Uniti. Nell'autunno del 1745, Ignazio si trasferì a Venezia con il conte Giovan Michele Vico, ospite dello zio paterno Umberto. Qui venne coinvolto in una lite con il marchese Giuseppe Grillo di Mondragone, un nobile genovese con feudi anche nell'Alessandrino, che fu ucciso dal suo servitore Bernardo da Fior.
Le autorità veneziane lo condannarono a morte, ma grazie all'aiuto dello zio gesuita e, forse anche per l'interessamento della corte di Torino, probabilmente per il ruolo del marchese Giovan Battista Sannazzaro di Giarole, suo zio materno, evitò la condanna. Ignazio, tornato a Casale, nel 1749 il suo nome compare fra gli associati per la stampa della traduzione italiana della Cyclopaedia or an universal dictionary of arts and sciences di Ephraim Chambers (Dizionario universale delle arti e delle scienze).
Nel contempo iniziò la sistemazione del Castello di Celle creando una ricchissima biblioteca. Conobbe Paolo Frisi, allora a Casale come regio professore di filosofia da cui nacque una profonda amicizia e che lo introdusse nei salotti culturali milanesi. Qui conobbe Pietro Verri che lo definì «uomo di sublime ingegno, profondo matematico, colto letterato, di cui non si valutavano nella città [Casale] che i difetti della vivace sua indole» (P. Verri, Memorie appartenenti alla vita ed agli studi del signor don Frisi, Milano 1787). Ignazio si sposò nel 1762 con la nobile genovese Marianna Violante da Passano.
In seguito Ignazio Radicati fu cooptato fra i decurioni di prima classe di Casale Monferrato e il 6 novembre 1766 Carlo Emanuele III lo nominò riformatore degli studi di Casale e del Monferrato. Furono in questi anni che maturò la sua fama di matematico e filosofo. Nel 1776 Radicati pubblicò a Milano la sua unica opera edita: il trattato d'algebra Mémoires analitiques. Il conte Ignazio Radicati, ormai vecchio e ammalato, si ritirò nel castello di Celle, vi morì all'inizio di novembre del 1779. Un altro importante edificio, sicuramente un dei famosi cinque castelli è Palazzo Ardizzone o degli Arditi. Questo vasto complesso, costruito originariamente intorno al XII secolo, oggi non possiede più alcuna torre o merlatura, ma la sua struttura di base è molto solida e massiccia. Sulle sue mura sono presenti diverse finestre medievali con motivi decorativi creati dal gioco cromatico dei contrasti tra mattoni e conci di tufo e dalle forme gotiche.
Da fortezza venne trasformato e adibito ai casa ed abitazione signorile, appunto dalla famiglia degli Ardizzone intorno al 1500. Del ponte levatoio e delle feritoie laterali si conservano solo alcune tracce, come la sagoma dell'arco che si apre sulla strada principale. Il borgo è molto vivace e giovanile, frequentato da tanti escursionisti ma anche da tanti giovani che frequentano le enoteche e locande che si affacciano anche lungo la strada principale.
Ormai sono fuori dal centro abitato del borgo e su un altura si erge la bella chiesetta romanica di San Quirico che fu costruita in stile romanico tra l'XI e il XII secolo. Questa era l'antica chiesa parrocchiale e sorgeva nel nucleo primitivo dell'abitato. Si presenta con una pianta rettangolare, abside semicircolare e pareti in mattoni e pietra da cantoni. La chiesa era meta di pellegrinaggi per chiedere la guarigione dei bambini e la benedizione dei vestiti che indossavano.
Immersa in un verdeggiante giardino, la chiesetta presenta una lunga scalinata d'accesso e una facciata intonacata. Questa è tripartita da lesene che sembrano sorreggere un marcapiano con un frontone con un elaborata voluta. La vecchia porta d'accesso è affiancata da due rettangolari aperture strombate con finestra. Un altra finestra rettangolare è posta centralmente sotto il marcapiano. Dietro la chiesa vi è un bellissimo belvedere con un affaccio su un altro caratteristico borgo: Rosignano Monferrato.
Di fronte alla chiesetta è stato collocato il monumento ai caduti e l'alto pennone su cui sventola la bandiera italiana. Il monumento è un grande masso del Monte Grappa. Sotto di esso, visibile dalla strada, vi è la lapide in bronzo riportante l'elenco dei caduti della Prima e Seconda Guerra Mondiale e della Guerra di liberazione. Sotto di esso, una serie di cippi ricordano, con i loro nomi, i combattenti che non fecero ritorno a casa.
Sempre nei pressi di questo sacrario, ai piedi della scalinata che conduce alla chiesetta di San Quirico, si erge un monumento in ferro, a ricordo del giurista cellese Gian Giacomo Francia (1775 - 1858). Mi aspetta una bella camminata per raggiungere la chiesetta dedicata alla Madonna di Loreto. La chiesetta è posta ai piedi del borgo e a Villa Cossetta, in mezzo ai prati ed ombreggianti alberi. Si presenta con una facciata in mattoni a vista e aspetto assai semplice. L'ingresso è inquadrato da una cornice in laterizio, affiancato da due finestre con grate. Sulla porta di ingresso vi è un oculo e un timpano arcuato, mentre l'abside è semicircolare, con piccolo campanile a sezione triangolare.
È ora di tornare in paese per fermarsi a gustare qualche piatto monferrino e sorseggiare un bicchiere di vino Grignolino. Seduto comodante al tavolo dell'enoteca/locanda, gusto un buon Tonno di Coniglio, agnolotti alla monferrina e saltando il secondo piatto, non posso rinunciare al Bunèt. Dopo il lauto pasto riprendo l'auto perché devo fare un lungo giro, infatti dapprima mi reco al cimitero di Cella Monte, dove troverò il monumento a soldati morti per la patria.
All'ingresso mi accoglie il busto con lapide di don Giuseppe Biletta fondatore dell'Istituto "Contardo Ferrini" poi Istituto Superiore Ascanio Sobrero. Il cimitero conserva tombe della famiglia Francia ma anche di Ugo Cei. Costui fu commissario Straordinario del Governo per le onoranze ai Caduti in guerra in Italia e all'estero, ideatore dei Monumenti di Redipuglia e del Monte Grappa. Al centro del camposanto trovo il monumento che cercavo e la sua lapide recita "Ai prodi soldati morti per la Patria terreste sia di ricompensa per quella celeste". La lapide con i nomi è alquanto consunta e forse un tempo era affissa sui muri del Municipio.
Ora mi dirigo verso Sala Monferrato, dove lungo la strada nei pressi di Cà Nova trovo la chiesetta di San Bernardino. Anche questa cascina possiede degli Infernot, questi piccoli vani ipogei interamente scavati a mano nella Pietra da Cantoni, tipica pietra arenaria marnosa-calcarea. Gli Infernot sono diventati patrimonio dell'Unesco. Il toponimo di La Cà Nova, non vuole dire cascina nuova ma deriva da "Càneva", ovvero "vano sotterraneo". Nei suoi pressi si erge la chiesetta di San Bernardino. Quest'edificio è costruita con pietra da cantoni ma la facciata si presenta in laterizio con tetto a capanna. Presenta una porta d'accesso affiancata da due strette finestre ad arco acuto in stile gotico.
È il momento di rientrare verso casa, godendomi questo dolce ondulare delle colline su strette e tortuose stradine che rendono ancor più affascinante il panorama e il viaggiare.