Blog di Dante Paolo Ferraris

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Luci ed ombre a Torino (XXXIII parte)

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Marcus FlintLa pioggia non intende cessare, ormai credo di aver perso il treno che mi riporta nella mia città dalle case in terra rossa, tanto vale bermi un caffè e gustarmi un tramezzino al caffè Mulassano
Entro ed chiedo al cameriere, in livrea bianca con papillon nero la mia ordinazione, mi accomodo davanti ad un piccolo tavolino, seduto con le spalle al muro, affinché possa guardare chi entra e chi passeggia sotto i portici. La storia della bottiglieria e poi del caffè Mulassano comincia nella seconda metà dell'ottocento, con apertura di una bottiglieria in via Nizza 3. Nel 1907, il locale fu poi trasferito nella più centrale piazza Castello.
L'allora proprietario, Amilcare Mulassano, era anche titolare della rinomata Distilleria Sacco, produttrice di un famoso sciroppo di menta.
Nel 1925 la famiglia di Angela e Onorino Nebiolo, rientrati dalla loro permanenza, quali emigranti negli U.S.A acquistarono con i risparmi accumulati in America dalla famiglia Mulassano il loro locale di piazza Castello.
Avevano portato con sé dagli Stati Uniti d'America una macchina che tostava il pane: così importarono, per primi a Torino, il toast. Non solo, utilizzando il morbido pane per toast, senza tostatura ma riempiendolo di una speciale farcitura, il signor Onorino inventò il tramezzino. Inizialmente serviva come stuzzichino per accompagnare gli aperitivi, poi, divenne lo spuntino di mezzogiorno. Ma solo più tardi, questo particolare leggero panino farcito assunse il nome di "tramezzino", ed a battezzarlo così fu Gabriele D'Annunzio.
Importanti industriali, artisti, professionisti da sempre frequentano il caffè Mulassano. Fra i più assidui frequentatori figura lo scrittore Mario Soldati. Alcune guide turistiche su Torino, ma purtroppo anche alcuni accompagnatori turistici raccontano che Vittorio Emanuele II incontrava Garibaldi al caffè Mulassano: ciò è evidentemente falso perché il caffè Mulassano all'epoca non esisteva. Durante la grande guerra mondiale il locale visse un periodo di profondo declino; il ritorno in auge del caffè Mulassano avviene negli anni settanta del XX secolo, grazie ad un accurato restauro voluto dal nuovo titolare, Antonio Chessa. Il locale è molto piccolo, ma ricco di marmi e stucchi ed è bello goderne la sua bellezza bevendo un caffè e mangiando uno dei suoi famosi tramezzini.
Sull'ingresso c'è ancora oggi una lanterna che non serve a illuminare il portico. Viene usata ancora oggi per avvisare chi esce dal Teatro Regio, che il locale è aperto.
Mentre nel suo interno sulla parete che sta dietro il bancone,campeggia sopra lo specchio la scritta Menta Sacco a ricordo dei fasti e della produzione di Amilcare Mulassano, in alto a sinistra, è posizionato uno strano orologio con una sola lancetta e con i numeri che sono messi senza ordine. La lancetta è mossa da un meccanismo che si attiva mediante un pulsante posto vicino cassa. Questo pazzo orologio serve a stabilire chi deve pagare il conto fra un gruppo di amici, infatti chi realizza il numero più alto paga la consumazione ed è attualmente in funzione ed usato da qualche gruppo di amici.
Non so perché, ma gustando il tramezzino, mi sovvengono due ricordi, il primo forse per via dell'incontro con Nymphadora Tonks, nota per le sue capacità culinarie e perché abita in un luogo famoso per i grissini stirati mi fanno ricordare un attimo ad una vecchia storia: Era il14 maggio 1666 quando nacque Vittorio Amedeo, figlio di Maria Giovanna di Nemours e di Carlo Emanuele II, le voci che correvano a corte sulla dubbia sessualità del duca furono così sopite, d'altra parte il primo matrimonio contratto dal duca con Francesca d'Orléans, non aveva soddisfatto le esigenze dinastiche della casata dei Savoia. L'erede al trono si rivelò, fin da subito, gracile e cagionevole di salute, tra i vari malanni di cui soffriva, pare avesse difficoltà digestive. I vari medici somministrarono varie forme di decotti, furono altresì convocati a corte anche esorcisti e maghi, fintanto che un medico, tale Teobaldo Pecchio di Lanzo, comprese che il fanciullo avesse difficoltà ad ingerire la mollica di pane. Il medico fece preparare dal fornaio Antonio Brunero, il "panataro ducale", una modifica alla ghërsa, una specie di pane tipo baguette francese, creando dei bastoncini croccanti e ben cotti senza mollica che l'erede al trono apprezzo. Il "ghërsin" diminutivo di ghërsa divenne presto grissino e ne fece grande uso tutta l'aristocrazia torinese. Vittorio Amedeo divenuto adulto e duca sabaudo, non volle mai distaccarsi dai suoi grissini, tanto che si dice che nella reggia di Venaria, s'aggiri il fantasma del duca con in mano un grissino, ovviamente accompagnato da un alone di profumo di bergamotto, frutto e profumo molto amato dal duca. Il grissino arrivò anche alla corte di Francia dove il re Sole ne fu entusiasta amante, pare anche che Napoleone Bonaparte spese cifre folli per farsi portate da Torino i grissini, in quanto i panettieri fatti arrivare dalla capitale sabauda a Parigi non riuscivano a creare la stessa croccantezza. Oggi il "ghërsin" ossia lo stirato torinese tipico è il robatà.
Un secondo ricordo è quello legato alla vita di Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia soprannominato "Re galantuomo" e "Padre della Patria" perché durante il suo regno nacque lo stato Italiano, anche se qualche maligno collega questo soprannome per il numero di figli, sopratutto illegittimi, che ebbe il re.
Costui nacque a Torino, piccolo, tarchiato e rubicondo, estremamente espansivo e assolutamente negato per lo studio, sostanzialmente molto diverso dai suoi genitori: il padre, Carlo Alberto era molto alto e magrissimo, il colorito era pallido, un carattere timido e riservato e molto pudico nei costumi sessuali, esattamente il contrario del figlio che invece manifestava un carattere espansivo e molto intraprendente nei costumi sessuali con il gentil sesso. Su di lui proprio per queste caratteristiche troppo diverse dai genitori si narra la leggenda della sostituzione del principino nella culla con un altro infante. I fatti storici documentati ci raccontano che quando Carlo Alberto era in esilio a Firenze, ospite di suo suocero il Granduca, la culla del bambino prese fuoco e la fantesca, prontamente accorsa spense l'incendio, salvò così il principino ma a costi di gravi ferite personali in quanto non si accorse che il suo vestito aveva a sua volta preso fuoco riportando così gravi ustioni. La leggenda invece vuole che negli stessi giorni un macellaio fiorentino, tale Tanaca, denunciò la scomparsa di proprio figlio che aveva la stessa età del principino; le malelingue misero in collegamento i due fatti spiegando in questo modo la sorprendente differenza tra padre e figlio. Vittorio Emanuele si era sempre comportato come un uomo del popolo: non apprezzava la vita che i nobili conducevano nei salotti, preferiva allegre compagnie, amava andare a caccia e la cucina langarola con i suoi vini invecchiati ed era terribilmente attratto dal fascino femminile. Si sposo con sua cugina prima Maria Adelaide di Asburgo Lorena, persona riservata e fervente religiosa, si racconta che sovente costei si facesse chiudere a chiave in una piccola stanza di un paio di metri quadrati con inginocchiatoio e crocifisso chiamato "pregadio", con l'ordine di non aprire fino ad una ora prestabilita. Da lei Vittorio Emanuele ebbe sette figli: Clotilde (1843-1911) che andò in sposa per accordi politici ad un cugino primo di Napoleone III, Umberto I, fu suo successore, Amedeo (1846-1890) duca d'Aosta, Oddone (1846-1866) duca del Monferrato, Maria Pia,(1849-1911 ) sposa del re del Portogallo, Carlo Alberto, (1851-1854) duca del Chiablese, Vittorio Emanuele, (1855) duca del Genovese. Per non parlare di numerose amanti come la splendida contessa di Castiglione che pare ebbe l'ordine di sedurre Napoleone. Ma ebbe anche amanti meno nobili da cui ebbe diversi figli illegittimi a cui fu spesso dato il nome Vittorio o Vittoria ed il cognome preferito dal re per questi suoi figli fu generalmente Guerrieri o Guerriero, tra l'altro si preoccupò sempre del loro mantenimento e di trovargli degna occupazione. Per non parlare poi della sua duratura relazione con Rosa Vercellana, conosciuta nel 1847 quando lei aveva 14 anni. Nonostante l'opposizione dei suoi ministri e della corte e le liti su di Lei con il Conte Camillo Benso di Cavour,la nominò lo stesso Contessa di Mirafiori e Fontanafredda l'11 aprile 1858, ed il motto scelto per la nuova casata fu "Dio. Patria. Famiglia." Con lo stesso decreto assegnò il cognome Guerrieri ai figli.
Quando rimase vedovo, la volle sposare morganaticamente. Da lei ebbe due figli, Vittoria ed Emanuele, che si trovarono spesso a fianco dei figli legittimi ma mal sopportati, sopratutto dal principe ereditario Umberto che non li sopportava. Mentre la Rosina, così veniva chiamata Rosa Vercellana non apparì mai in manifestazioni pubbliche al fianco del re. Anche quando la capitale fu trasferita a Roma, il re visse vita piuttosto appartata con la sua Rosina, lasciando al principe Umberto il compito di accattivarsi il popolo e la classe dirigente romana. Il re morì a Roma e il figlio Umberto, erede al trono lo fece seppellire nel pantheon a Roma, nonostante la volontà del padre di essere sepolto a Torino. Si racconta che Umberto I, dopo la morte del padre trovò un bastone da passeggio rotto in due pezzi "che era stato spezzato sulla schiena d'un abate che aveva sparlato di Rosina. Sorte diversa ebbe la povera Rosina, tanto odiata da Umberto I, Infatti il suo rapporto d'amore con Vittorio Emanuele II fu sempre osteggiato, anche dopo la sua morte, quasi si volesse far dimenticare la sua esistenza.
Rosa Vercellana nacque a Nizza marittima il 3 giugno 1833 da Teresa Gariglio e da Giovanni Battista Vercellana, originario di Moncalvo d'Asti, militare di carriera. Rosa aveva due fratelli: Adelaide e Domenico. Il padre era di grande e massiccia statura, si narra che fosse stato tamburo maggiore o addirittura porta aquila della Guardia Imperiale napoleonica. Comunque sia rientrò nell'esercito sabaudo restaurato e divenne ufficiale nelle guardie del Re. Il padre di Rosa comandava il presidio della tenuta di caccia di Racconigi e ivi viveva con la famiglia; qui Rosa o meglio Rosina, come era comunemente chiamata, incontrò per la prima volta Vittorio Emanuele II, all'epoca ancora principe ereditario, ma già sposato con Maria Adelaide d'Asburgo Lorena; lui aveva 27 anni e lei 14. Rosina era una bella ragazza rubiconda, formosa, coi capelli scuri e lo sguardo profondo, si racconta fosse già molto sviluppata per la sua età. Su come si fossero incontrati, su come e quando avvenivano i galanti incontri vi è una fiorita letteratura, di certo fu colpo di fulmine per entrambi. La loro relazione che sfidò critiche, etichetta e differenze di casta durò per tutta la vita, nonostante le ulteriori scappatelle di Vittorio Emanuele. La relazione fra colei che tutti chiamano la "Bela Rosin" e il principe e poi re Vittorio Emanuele II, fece scandalo e fu avversata sia dai nobili che dai politici, specialmente dopo la morte della regina, avvenuta nel 1855. L'intera corte e lo stesso governo, con a capo Camillo Benso fecero di tutto per ostacolare l'amore di Vittorio e Rosina, tentando di convincere il re a sposare una principessa, magari la vedova del suo stesso fratello, che lo invitò perfino nel proprio talamo. Infatti la bellissima moglie di suo fratello Ferdinando, Elisabetta di Sassonia si narra invitò il re nel suo letto e si dice che il re dopo aver infilato una gamba sotto le lenzuola abbia abbandonato l'alcova di Lei, affermando di aver visto il fantasma del fratello … Rosina inoltre oltre a sopportare le malversazioni della corte, le infamie su di Lei raccontate per allontanarla dal re, era una bravissima cuoca e gli preparava deliziose leccornie come agnolotti, tajarin e bagna caôda annaffiati da ottimi vini. Sposa morganatica di Vittorio Emanuele a Pisa il 26 dicembre 1885, le venne negato il diritto di riposare col marito al Pantheon; i figli Vittoria e Emanuele vollero innalzarne per lei una copia del Pantheon a Torino in un parco di circa 30.000 mq circondato da un muro; il monumento fu battezzato dai torinesi il "Mausoleo della Bela Rosin". Dopo che il 4 Aprile 1943 il sepolcro fu profanato da ignoti in cerca di gioielli, il corpo della contessa fu spostato nel cimitero generale.
Riprendo la passeggiata, volendo fare un giro in piazza Castello prima di riprendere il treno per il mio rientro a casa, mi ritrovo all'angolo di Piazza Castello con via Po, dove un tempo esisteva una lapide, oggi dispersa o nascosta, che in passato era collocata proprio vicino al chiosco di un giornalaio e che avrebbe dovuto ricordare ai passanti, la fucilazione di Narciso Gambalunga, avvenuta il 29.10.1944. Costui, nato il 29 febbraio 1919 a Botteghe (PD), di professione bracciante e residente a Venaria Reale, fu prelevato al Cinema Romano dai nazifascisti e fucilato in quell'angolo della piazza in quanto militante - partigiano dell'11a brigata Garibaldi
Mentre fa bella mostra nell'angolo tra piazza Castello e via Accademia delle scienze una lapide che ricorda un fatto di sangue avvenuto il 15 gennaio 1945, quando un gruppo di fascisti ebbe uno scontro a fuoco con due partigiani della 19a brigata Garibaldi. Veronese Guerrino, nato a Ania (Pd) il 30 marzo 1925, nemmeno ventenne cadeva crivellato dai colpi fascisti di fronte al civico n°51, il compagno trovo rifugio negli scantinati dei palazzi, nascosto dagli inquilini. Oggi gruppi di ragazzi, magari coetanei di Guerrino, siedono sotto la lapide che lo ricorda, o si appoggiano al muro mangiando e bevendo i prodotti di una nota casa di fast-food senza rendersi conto che oggi possono permettersi questa libertà, grazie anche al suo sacrificio.
Ormai sono sotto ai portici dove c'è il Teatro Regio, le cui origini risalgono all'inizio del XVIII secolo quando Vittorio Amedeo II ne commissionò la costruzione all'architetto Filippo Juvarra, ma la sua reale costruzione avvenne solo quando Carlo Emanuele III, incoronato re nel 1730 assegnò il progetto a Benedetto Alfieri, per la sopraggiunta morte di Juvarra. Il «Regio Teatro» di Torino venne inaugurato il 26 dicembre del 1740 in occasione dell'inizio della stagione teatrale che aveva sempre inizio il 26 dicembre e si concludeva con la fine del carnevale. Nel corso del XVIII secolo scrissero per il Regio celebri compositori italiani come Cimarosa, Johann Christian Bach, Paisiello, Hasse e, vi cantarono inoltre i più celebri castrati dell'epoca, contribuendo spesso in modo determinante al successo degli spettacoli. Il teatro Regio cambia nome più volte, rispecchiando gli eventi storici: nel 1798 diviene Teatro Nazionale, nel 1801 Grand Théâtre des Arts e nel 1804 Théâtre Impérial. Nel clima moralizzatore degli anni repubblicani di inizio 1800, come viene abolito il gioco d'azzardo, viene altresì proibito l'ingaggio dei cantori castrati, che poi comunque torneranno a calcare le scene in epoca imperiale. Lo stesso Napoleone vi presenzia agli spettacoli in tre occasioni, nel 1870 la proprietà del Regio passa al Comune di Torino; ed è questo il periodo che avviene l'esordio in Teatro di Arturo Toscanini, che collabora con l'Orchestra dal 1895 al 1898.
Altri autori importanti nella storia del Regio sono Giacomo Puccini, che tiene a battesimo a Torino Manon Lescaut (1893) e La bohéme (1896), e Richard Strauss, che nel 1906 dirige Salome in "prima" italiana. L'ultima grande "prima" ospitata dal Regio settecentesco, prima che le fiamme lo distruggessero fu Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, su libretto di Gabriele D'Annunzio (1914). Numerosi sono gli aneddoti che nasconde il teatro Regio; e se sul palco si raccontavano le passioni, gli amori e le tragedie delle opere liriche, i suoi velluti e i suoi camerini furono scenario privilegiato di storie galanti, come quelle di Niccolò Paganini che non tenne solo dei concerti ma numerosi convegni d'amore. Il teatro fu chiuso nel periodo bellico della prima guerra mondiale, e alla sua riapertura trovano svolgimento solo opere di repertorio.
Nella notte tra l'8 e il 9 febbraio 1936 il teatro viene distrutto da un violento incendio: ci vorranno quasi quarant'anni per la sua ricostruzione. Il nuovo Teatro Regio viene inaugurato il 10 aprile 1973 con l'opera di Giuseppe Verdi I vespri siciliani, per la regia di Maria Callas e Giuseppe Di Stefano.
Da sotto i portici del teatro vedo Marcus Flitt (Marcus Flint) che aspetta il tram n 7. Per fortuna non mi vede, così evito di salutare mal volentieri uno delle dei peggiori Mangiamorte della Hogwart torinese
Marcus Flitt nella storia della Rowling appartiene alla casa dei Serpeverde, ha i capelli scuri ed è alto e ben piantato ed è il capitano della squadra di quidditch dei Serpeverde. La Rowling lo descrive come ragazzo piuttosto stupido, con grossi denti piatti, storti e sporgenti, tanto da sembrare un coniglio venuto fuori male. Invece il Marcus Flitt della mia Hogward, non è torinese ma arriva da un lontano comune del più profondo piemonte, è uno dei peggiori Mangiamorte che abbia conosciuto. Marcus Flitt di mia conoscenza è un personaggio che è stato per anni defilato dalle sale della Hogward torinese ma che con arroganza e prepotenza ed usando tutte le arti propri dei Mangiamorte, dall'infamia alla vigliaccheria si è fatto strada mistificando ogni cosa e circuendo i babbani che gli orbitavano intorno arrivando ad occupare luoghi di prestigio della scuola di stregoneria torinese.
Marcus non ha avuto e non ha alcun timore ad usare dei metodi "alternativi" sia per vincere una partita di quiddich come di poter rimanere sul palco ad accogliere applausi dai suoi simili.
Da sempre Marcus Flitt ha tenuto un agenda con un elenco di persone che detestava e alle quali da sempre avrebbe voluto nuocere, eliminando così chiunque si contrapponesse o ostacolasse la sua spericolata corsa alla conquista di qualche posizione dominate tra i Mangiamorte. Marcus Flint della Rowling non ha mai amato particolarmente lo studio, mentre quello torinese ha particolari doti nello studiare sopratutto le materie che la scuola di stregoneria mette a disposizione, come lo studio della storia della di cui è anche autore di libri.
Si presenta con un aspetto basso e tozzo, un grande viso rotondo,sproporzionato al corpo, con un naso piccolo e a patata, due grandi orecchie sostengono degli occhiali che vorrebbero celare due occhi scuri, da cui comunque traspare uno sguardo acido e cattivo. La bocca da cui sentenzia è piccola e sottile, la fronte ampia con evidenti cenni di alopecia nonostante la giovane età, la fa da padrona su un capello biondo che sembra riportato con una pettinatura liscia e senza cura.
I genitori che ho avuto modo di conoscere, come il fratello maggiore, sono persone eccezionali e nati babbani e nulla hanno mai avuto che fare con magie e stregonerie. Sono convinto che i suoi famigliari siano sotto la maledizione imperius. La maledizione fu creata per coercizione e lavaggio del cervello per servizi di schiavitù. Marcus Flint mi ricorda il cane pulcioso Muttley del fumetto animato Dasdarly & Muttley sempre alla ricerca di medaglie ed onori immeritati.



Fine XXXIII parte.