
Infatti era consuetudine mangiare un pane bianco molto grande, almeno così afferma nel suo libro "Il Panettone" Stanislao Porzio. Il nome forse deriva dal meneghino "panatton" ossia pane grande. Un pane di grano fermentato, molto grande. Non c'erano lo zucchero, il burro e le uova e tanto meno l'uvetta sultanina o la frutta candita. Era speciale perché si trattava di un pane di grano bianco, un lusso che non era alla portata di nessun cittadino, che solitamente doveva accontentarsi di pani più umili ai cereali. A Natale tutti i commensali mangiavano delle fette di questo pane di frumento distribuite dal capofamiglia, si dice anche che ne conservasse una per l'anno successivo, come buon augurio. Questa tradizione era conosciuto come il rito del ceppo.
Ne abbiamo una descrizione risalente al 1440 in una lettera dell'umanista Francesco Fidelfo, che racconta che si era radunata al castello di Milano gran parte della nobiltà ambrosiana e che, alla presenza dello stesso duca Filippo Maria Visconti, fu celebrata l'annuale cerimonia del "zocco" oggi ceppo e che il giorno seguente agli intervenuti furono distribuiti vari doni. Usanza questa che fu continuata anche ai tempi degli Sforza, i quali volevano ancor più dei Visconti che alla festa intervenissero un gran numero di nobili del ducato. Pertanto le antiche famiglie milanesi nobili e borghesi la vigilia del Natale si radunavano intorno al focolare: Il padre, a capo della casa, fattosi il segno della croce, prendeva un grosso ceppo, possibilmente di quercia, lo deponeva nel camino, vi collocava sotto un mazzolino di ginepro e attizzava il fuoco.
Subito dopo versava del vino in un calice e lo cospargeva dapprima tra le fiamme, poi ne sorseggiava lui per primo e lo passava agli altri membri della famiglia che, a turno, l'assaggiavano. In seguito il padre gettava una moneta sul ceppo che divampava e successivamente distribuiva delle monete agli astanti. Infine, gli venivano presentati tre grandi pani di frumento, simbolo della Trinità e con un gesto solenne, ne tagliava solo una piccola parte che veniva riposta e conservata sino al Natale dell'anno successivo, il resto veniva distribuito ai commensali. L'uso del ceppo natalizio quando arrivò al contado, pare che vi si aggiunse la tradizione di raccogliere poi la cenere prodotta dal ceppo da spargere sui campi per propiziare il raccolto.
Un'altra tradizione prevedeva l'inserimento di una moneta d'oro o d'argento (ciocco) nell'impasto, durante la preparazione. Una volta tagliato per consumarlo, chi avesse trovato il ciocco sarebbe stato baciato dalla fortuna tutto l'anno. Quel pane, aveva soprattutto per i poveri, un valore particolare in quanto i fornai, tranne quelli che panificavano per i nobili, durante l'anno avevano il divieto di usare farina di frumento considerata pregiata e quindi prerogativa dei ricchi. Per le feste di Natale però le Corporazioni milanesi dei panettieri potevano produrre questo pane, detto "Pan de Sciori" o "Pan de Ton", cioè pane dei signori. Qualcuno afferma che qualche panettiere lo arricchisse con zucchero, burro e uova. Comunque questo "panatton" era riservato solo a chi ne aveva i mezzi economici per permetterselo, ossia mercanti e artigiani, la futura piccola borghesia.
La leggenda originale vuole che il panettone nasca nel XV secolo alla corte di Ludovico il Moro. Uno dei suoi cuochi, incaricato di preparare il banchetto di Natale a cui avrebbero partecipato molti nobili e illustri personaggi, sbadatamente dimenticò nel forno il dolce cucinato per l'occasione che si bruciò completamente. Uno sguattero di nome Toni, allora, intervenne e suggerì una soluzione: aveva tenuto per sé una parte dell'impasto e vi aveva aggiunto un po' di farina, burro, uova, della scorza di cedro e qualche uvetta. Il dolce fu servito al banchetto e fu subito apprezzato. Il cuoco rivelò, quindi, il segreto che si celava dietro tale ghiottoneria: "L'è 'l pan dal Tögn", espressione dialettale da cui deriva il nome "panettone".
Un'altra leggenda sempre legata alla corte di Ludovico il Moro vuole che il panettone fosse stato inventato da Messer Ulivo degli Atellani, falconiere di Ludovico il Moro. Costui innamorato della figlia di un fornaio chiamato Toni, si fece assumere come garzone nel panificio del padre di lei e con l'obiettivo di trovare i favori del genitore incrementandogli le vendite volle sperimentare una nuova ricetta. Riuscì ad acquistare una grande quantità di burro e una notte, quindi decise di aggiungerlo all'impasto del pane. Il risultato fu un successo, tanto che il panificio di Toni divenne il migliore di Milano. Durante il periodo natalizio, modificò ulteriormente la ricetta aggiungendo uova, pezzetti di cedro candito e uva sultanina.
La prima ricetta pubblicata del panettone risale al 1549. Cristoforo di Messisbugo, un cuoco di Ferrara, elenca gli ingredienti di un dolce realizzato nel milanese, fatto di farina, burro, zucchero, uova, latte e acqua di rose, aggiungendo che deve ben lievitare e avere forma tonda. Pertanto dire che il panettone affonda le sue origini nel XIV secolo è un po' azzardato: forse è più corretto dire che a Milano da sette secoli esiste l'usanza di mettere una grande pagnotta al centro della tavola durante le feste del Natale. Questo pane si è evoluto poco a poco fino a raggiungere quello che conosciamo oggi. Nel registro dei conti del Collegio Borromeo di Pavia nel 1599 per le spese del pranzo di natalizio, si descrive l'acquisto di tre libbre di burro, due di uvetta e due once di spezie per preparare "13 pani grossi", con una ricetta che assomiglia molto a quella del panettone.
La prima definizione ufficiale di panettone è del 1606: il "panaton", nel dizionario milanese-italiano, è un grosso pane preparato a Natale. Nel ‘700 Pietro Verri ripropone, nella sua "Storia di Milano", il rito del ceppo alla corte degli Sforza. Sono convinto che solo nel XIX secolo si inizi ad avere un panettone quasi come quello che conosciamo oggi con burro, zucchero, uova e uvetta incorporati nella farina bianca e poi lievitata, anche se con forme più basse di quella che conosciamo. Il panettone come lo conosciamo oggi è una creazione del pasticcere Angelo Motta che intorno al 1923 decise di modificare la ricetta tradizionale, arricchendola con più burro e zucchero e aumentando i tempi di fermentazione. L'impasto risultò più morbido, e per farlo crescere aggiunse la caratteristica striscia di carta che rende alto il panettone.
Nel 1931 Motta inaugurò il suo primo stabilimento di grandi dimensioni, iniziando così un processo di semi industrializzazione, in cui furono mantenuti gli ingredienti tipici della pasticceria artigianale. Il boom del panettone in Italia arrivò negli anni '50 del secolo scorso quando diventò popolare in tutto il Paese, ed è uno dei tanti simboli del benessere e del miracolo italiano, il prodotto della "dolce vita" italiana. Nasce così la tradizione di regalare panettone e spumante. Nascono e si consolidano i marchi più conosciuti perché ormai il panettone è diffuso ovunque a Natale. I maggiori marchi industriali erano Motta, Alemagna e Wamar e seguirono Balocco, Maina, Bauli, Melegatti.
Oggi la maggior produzione industriale si è spostata nel veronese, torinese e cuneese. Nascono panettoni senza frutta per avvicinarli ai gusti dei bambini e perché, diciamolo, i canditi non sono più apprezzati come un tempo, si aggiunsero poi i panettoni ripieni di ogni tipo di creme. Con l'industrializzazione arriva anche la standardizzazione del gusto e le diverse marche lottano per abbassare i prezzi e attirare i consumatori che cercano qualcosa di diverso da un prodotto standardizzato e banalizzato. Come reazione, il consumatore iniziò a cercare nuovamente la qualità artigianale intorno agli anni 90'.
Il panettone ritorna nei laboratori di panificazione e si comincia a parlare di panettone artigianale. Ma quello che ritorna è molto diverso da quello uscito quasi 100 anni prima, quello piatto e denso del 1890, ma quello di Angelo Motta, ossia alto, con lievito madre, con tanto burro. Il restyling si concentra sulle materie prime: farina e burro di qualità, uvetta e frutti candidi di maggiore pregio tanto da essere una delizia. Oggi in Italia è possibile trovare panettoni da supermercato di discreta qualità ma i laboratori di pasticceria sono ancora vincenti.
Fortunatamente un decreto ministeriale del 22 luglio 2005 stabilisce i requisiti necessari affinché il Panettone possa chiamarsi così: l'unico grasso ammesso è il burro, le uova devono essere fresche e di tipo A, ecc… Sono ammessi l'emulsionante e alcuni conservanti, che vengono utilizzati nella produzione industriale per conservare più a lungo il panettone. La febbre del panettone non si ferma in Italia, ormai ha raggiunto tutto il mondo, ad esempio in Spagna, e ogni anno sempre più maestri panettieri e pasticceri producono il loro panettone artigianale.
In Argentina arrivò con gli emigranti italiani e lì è ancora tradizione festeggiare il Natale con il pangiallo romano. Questo è un dolce molto più basso e non soffice per il poco lievito ed è un impasto ricco di frutta secca come mandorle, noci, nocciole e pinoli, miele, fichi, cedro candito e con pezzi di cioccolato. Il pangiallo quale viene in seguito sottoposto a cottura e ricoperto da uno strato di pastella d'uovo. In Spagna, ad esempio è facile, purtroppo, trovare panettoni con la margarina, con lievito industriale e con uova pastorizzate.
Un'altra tradizione meneghina consiste nel mangiare, il giorno di San Biagio una fetta di panettone avanzato per proteggersi dai malanni di stagione. Comunque contrariamente ad altri dolci, il panettone non si prepara mai in casa e si preferisce la pasticceria artigianale o anche quella industriale che riescono a realizzare con la lievitazione, quella morbidezza che ne sono la distinzione inconfondibile. Il panettone piace perché è qualcosa che crea dipendenza, è delizioso ed è anche una buona prima colazione intinto in un tazzone di latte caldo. Piace anche ai panificatori-pasticceri perché è una sfida per il suo complesso processo da gestire in un panificio, gestire la pasta madre è fondamentale.
Ma vi sono altri dolci natalizi italiani come il pangiallo di Roma o il pandolce di Genova, il parozzo di Pescara, per non parlare del pandoro veronese, ma anche il panforte di Siena, gli struffoli campani, i calzoncelli della Basilicata, i petrali di Reggio Calabria, i bucellati siciliani, il certosino di Bologna, i cavallucci di Apiro, i mostaccioli molisani, i papassini sardi, il torciglione umbro, il Lou mécoulen di Cogne, lo Zelten dell'Alto Adige o il friulano Potiza, molti dei quali presenti ormai sulle tavole tutto l'anno.