Blog di Dante Paolo Ferraris

  • Aumenta dimensione caratteri
  • Dimensione caratteri predefinita
  • Diminuisci dimensione caratteri
Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Triora, un borgo ligure da scoprire - IV ed ultima parte

E-mail Stampa PDF
TrioraPrima di continuare il mio girovagare faccio una sosta per pranzare in una delle diverse osterie locali. Il menù è veramente ricco e faccio fatica a scegliere, benché la zona sia famosa per i funghi la mia attenzione si rivolge ad un assaggio di lingua al verde, al brandacujun per proseguire con ravioli ai profumi liguri, ossia alle erbe di stagione, e ai gnocchi di farina di castagne con il "bruzzo", ricotta di pecora fermentata, scelta assai difficile. Certamente devo assaggiare il coniglio alla triorasca, con le olive e le erbe. Sul desco non manca il famoso pane di Triora, marchio registrato, prodotto nei due forni di Molini e Triora che viene preparato con farina tipo 1, farina di grano saraceno e crusca, e fatto lievitare per una notte con acqua tiepida e sale.
Il brandacujun, dall'insolito nome di questa pietanza tradizionale, mette i discussioni i diversi commensali quando ne chiedo l'etimologia che esplicitamente fa riferimento agli attributi maschili. Alcuni sostengono che lo sbattimento vigoroso della pentola delle patate e dello stoccafisso potesse essere svolto solamente da un uomo robusto il quale, alla fine della mantecatura, con le braccia tese verso il basso e con la pentola quasi all'altezza degli "attributi" doveva scuotere e mescolare energicamente. I più colti affermano che letteralmente derivi dal verbo "brandeggiare" che significa oscillare, scuotere con forza.
Altri si rifanno al dialetto ligure con la frase: «Branda, cujon! Branda, che ciu ti u brandi ciu u l'è bon!» ovvero: «Scuotilo che più lo scuoti più è buono!». Il brandacujun è una pietanza che spesso compare nei menù dei ristoranti tradizionali di Liguria e del basso Piemonte. Comunque questa pietanza è fatta con patate, prezzemolo, stoccafisso, olive taggiasche, aglio ed olio di oliva. Dopo un lauto pasta e interessanti chiacchierate con gli avventori locali e seguendo i loro consigli per raggiungere la chiesa di Santa Caterina e i castello, mi avvio per una bella camminata.
Dapprima mi reco sul castello o meglio ai suoi ruderi. Il castello con i ruderi ed il torrione centrale, testimonia l'importanza del luogo e la tenacia degli abitanti. Costruita dalla Repubblica di Genova a difesa dei suoi confini, subì anche ripetuti danneggiamenti da parte dei trioresi in rivolta contro l'esosità dei tributi imposti. Secondo le indicazioni raccolte cerco in lontananza un altra fortezza, chiamata il fortino che scorgo su un altura. Questo fortino serviva sia a difesa del borgo ma anche come posto di dogana con il Piemonte. Oggi nei suoi pressi si erge il cimitero del borgo. Il fortino era indicato come locum iustitiae, perché vi avevano luogo le sentenze capitali.
Attraverso una breve mulattiera che parte dalla Fontana Soprana raggiungo il Poggio della Croce che prende il nome da una croce in ferro ivi apposta. Mi hanno raccontato che da sempre questo luogo è considerato un luogo tranquillo dove rilassarsi all'ombra del vecchio ippocastano che pare essere a guardia del luogo. Anche nei suoi pressi vi sono ruderi di antiche costruzioni. E se i sentieri e i carrugi del villaggio sono tortuosi, la strada che mi conduce alla chiesa di Santa Caterina è assai scorrevole, benché coperta di foglie. Intorno a me roveti, Roverelle, Castagni ma anche Ulivi e la bella Ginestra fiorita.
L'immaginazione corre al pensiero di luoghi nascosti con laghetti e fontane incantate, sottobosco ricco di funghi, radure magiche e pare sentire sussurri nel vento, luoghi abitati dagli spiriti dei boschi che comunicano con le streghe. Raggiungo la chiesetta di Santa Caterina d'Alessandria o meglio quello che resta e che fu edificata dalla famiglia Capponi nel 1390. Costruita in un bellissimo luogo sono ancora visibili tratti delle sue mura in pietra tra cui la facciata. Questa presenta pietre angolari tagliate e squadrate perfettamente come quelle del portale dell'unica porta d'accesso.
Sull'architrave della porta vi era lo stemma dei Capponi che fu discappellato. Sopra vi è un arco a tutto sesto anch'esso in pietra finemente tagliata. Sotto il culmine del tetto, ormai scomparso vi è un oculo strombato e incorniciato da una cornice in pietra a forma romboidale. Mi soffermo ad osservare la scritta in latino che è incisa sulla pietra dell'architrave ai lati dello stemma gentilizio. La scritta racconta la posa della prima pietra della chiesa che fu dedicata alla Santissima Trinità e a Santa Caterina per volontà del donatore Oberto Capponi nel 1390. Ovviamente all'interno non vi è più nulla se non quello che doveva essere altare in pietra.
Torno lentamente indietro e mi reco ad ammirare la seicentesca chiesa di Sant'Agostino. A questa chiesa i trioresi sono assai affezionati soprattutto perché custodisce il gruppo statuario della Madonna della Misericordia, scolpito nel 1841 assieme ad una croce e ad un crocifisso trecentesco. La facciata è interamente affrescata, tripartita da lesene e divisa in due ordini. Presenta un tetto a capanna con finestra ovoidale al centro del frontone. Inoltre mostra tre porte d'accesso, la cui centrale è più grande, sopra di essa è affrescato Sant'Agostina di Ippona, mentre al centro del secondo ordine vi è una grande finestra con arco a tutto sesto.
La chiesa raccoglie diverse tristi storie di sangue. La principale ricorda il dott. Agostino Oddo, famoso medico operante a Genova, che fu ucciso nel 1615. Costui aveva disposto che i suoi eredi fossero i padri Agostiniani di Genova affinché edificassero la chiesa con annesso convento. Il dott Oddo era assai riconoscente ai padri agostiniani perché durante un periodo in cui fu incarcerato a seguito di una denuncia presentata da suoi denigratori e poi risultata infondata, fu assistito e aiutato da costoro. Ovviamente alla sua edificazione vi furono diversi problemi dovuti essenzialmente dai suoi mancati eredi.
Un altro tragico evento avvenne quando il padre Giovanni di San Nicola uscì dalla chiesa per rimproverare alcuni soldati francesi che stavano maltrattando alcuni abitanti durante una sacra funzione e fu ucciso da questi militari. Gli agostiniani scalzi furono cacciati dalla chiesa nel 1798 con l'arrivo delle truppe napoleoniche. Del convento rimangono solo dei ruderi. Scendo verso il paese seguendo la stretta stradina, che dapprima corre in piano ed è costeggiata da Ippocastani poi diventa ripida. Via Sant'Agostino nella parte terminale è costeggiata da case e dal muro dell'ex ospedale. Si di esse vi è una targa che ricorda che un tempo vi era una chiesa, dedicata dapprima a San Lazzaro poi a Sant'Agnese.
È il momento di lasciare e Triora e visitare due frazioni prima di fare rientro verso casa. Raggiungo così Creppo, un borgo assai lontano dal capoluogo ma che presenta un grande edificio religioso, la chiesa della Natività di Maria Santissima. Questa chiesa risale al XVIII secolo come Oratorio ma riuscì a diventare parrocchia. L'edificio è raggiungibile attraverso un'erta stradina in acciottolato che conduce al piazzale. La facciata è decorata con quattro paraste che tripartiscono lo spazio, presenta un portone ligneo incorniciato da stipiti in ardesia ed è sormontato da sovrapporta in ardesia sagomato con croce.
Una piccola nicchia concava con statua di Madonna sovrasta l'accesso. Al di sopra, si trova una finestra rettangolare con vetri multicolore. Il profilo superiore triangolare del timpano conclude il prospetto. La chiesa fu ingrandita e presenta decorazioni tardo ottocentesche. Creppo è un borgo assai piccolo, un grappolo di case appeso alla montagna ma con una chiesa di dimensioni considerevoli. Nei pressi di Creppo vi è un antico ponte in pietra murata che dicono sia romano. L'altra borgata che vado a visitare è Realdo un piccolo gruppo di case costruito in una posizione magnifica arroccato e disteso su una verdeggiante sperone che lo rende incantevole. Si tratta di una località posta al confine con la val Roia francese.
Realdo fino al trattato di Parigi del 1947 era in Piemonte, in provincia di Cuneo, come frazione di Briga Marittima, per poi passare alla Liguria dopo la cessione di Briga Marittima alla Francia. Il borgo fu edificato tra il XV - XVI secolo e pare avesse sede anche un posto di guardia dei militi di frontiera dell'esercito sabaudo. La locale chiesa parrocchiale è intitolata a Nostra Signora del Rosario e fu riedificata nel corso del XVIII secolo. Presente nella frazione anche l'antico forno comunale, una ottocentesca fontana e il museo "Cà de Gente Brigaŝche". Questo museo racconta la cultura e l'idioma della Comunità brigasca, l'arte e la musica. Ricordo che il locale idioma è stato riconosciuta dalla legge 482/99 come minoranza linguistica storica.
Nel chiacchierare con anziane signore che trovo lungo Via Rogli, apprendo che la strada principale, localmente detta "Ër Carùgë di Ebréu". Tale denominazione è dovuta all'esistenza di un vecchi palazzo, che fu abitata da Ebrei, commercianti di lana. Scopro altresì che il loro piatto tradizionale, come di tutta la Terra Brigasca sono i "sugéli", una pasta simile simili alla orecchiette pugliesi, preparate con sola farina di grano tenero e conditi con formaggio pecorino e "brus". Ovviamente mi raccontano che il piatto era preparato solo per le feste più importanti mentre tutti i giorni l'alimentazione era a base di lenticchie, fagioli, patate, castagne, latte e suoi derivati, uova, frutti coltivati e di bosco.
Altro piatto tipico, le "brusùuṡe", realizzato con una sfoglia di pasta, con vari ripieni a base di ricotta o erbe o semplicemente spalmata con olio e aglio, e cotte nel forno Anche la strada per raggiunge la borgata è fantastica, tra verdeggianti monti, gole e cascate. Prima di andarmene voglio ancora vedere e sostare al ponte di Loreto che fu eretto nel 1958 con lo scopo di collegare Triora alla frazione di Cetta. È alto circa 112 metri sopra la Fora di Taggia ed è uno dei ponti più alti in Europa.
In passato era famoso per la pratica del bungee jumping ora attività non più praticata, oramai tristemente noto per i suicidi visto la sua altezza. Prende il nome dal vicino santuario dedicato alla Madonna di Loreto, in passato chiamato anche di Madonna del Ciapazzo, per via della roccia di ardesia su cui fu costruito, o di Nostra Signora delle Saline, in quanto qui si riunivano i contrabbandieri intenti a risalire la Valle Argentina per portare il sale in Piemonte. La chiesa è a croce latina a tre navate, ci si accede tramite un piccolo portico. Nella chiesa una lapide ricorda che gli abitanti di Triora ringraziarono la Vergine per esser scampati alle devastazioni causate dal terremoto del 1887.
Dal ponte si può ammirare la Fora di Taggia che grazie alla sua particolare conformazione vi è possibile praticare canyoning o anche torrentismo lungo il torrente Argentina. Sono tante le cose ancora da vedere e scoprire ma il viaggio di ritorno è lungo e devo ripartire. Sono soddisfatto di aver potuto visitare Triora e il suo sistema museale che mi ha permesso di fare un viaggio nel tempo e comprendere molte cose sulla superstizione e sul modo antico di vivere. L'atmosfera trovata a Triora, le sue pietre, i silenzi, gli spazi infiniti dei suoi panorami mi hanno creato molte suggestioni con la sua storia legata alle streghe. Qui, le streghe secondo le leggende si riunivano per le loro cerimonie e incantesimi.
Streghe e Triora sono un connubio inscindibile la cui conferma si ha passeggiando nel borgo ed entrando nei suoi locali di ristorazione e negozietti. Infatti ovunque ho rivolto lo sguardo ho trovano elementi che ricordano il legame del borgo con il suo periodo storico e la caccia alle streghe. Sono convinto è che le streghe di Triora vivano ancora.



Fine IV ed ultima parte.